Tempo d’estate, tempo di messaggi chat. Ma quanti sono davvero informati sul servizio più usato da vecchi e giovani? È quello su cui insiste l’Antitrust, che interviene nuovamente nei confronti di WhatsApp sull’obbligo
di pubblicare sul proprio sito il provvedimento che individuava “la vessatorieta'” di alcune clausole del
contratto per i clienti. Tale obbligo era connesso a una decisione del Garante di maggio, quando lo sceriffo del mercato aveva inflitto alla societa’ una multa di tre milioni e chiesto l’obbligo di pubblicazione; ma WhatsApp, pur avendo pagato la sanzione, ha comunicato il ricorso sull’altro provvedimento.
Ora l’Antitrust annuncia, nel suo consueto bollettino mensile, “l’avvio del procedimento per eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria”.
Cosa era successo in primavera?
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nella riunione dell’11 maggio, aveva chiuso le due istruttorie, avviate nel mese di ottobre 2016, nei confronti di WhatsApp Inc. per presunte violazioni del Codice del Consumo.
Nel primo procedimento, l’Autorità ha accertato, comminando a WhatsApp Inc. una sanzione di 3 milioni di euro, che la società ha, di fatto, indotto gli utenti di WhatsApp Messenger ad accettare integralmente i nuovi Termini di Utilizzo, in particolare la condivisione dei propri dati con Facebook, facendo loro credere che sarebbe stato, altrimenti, impossibile proseguire nell’uso dell’applicazione. Coloro che erano già utenti alla data della modifica dei Termini (25 agosto 2016) avevano, invece, la possibilità di accettarne “parzialmente” i contenuti, potendo decidere di non fornire l’assenso a condividere le informazioni del proprio account WhatsApp con Facebook e continuare, comunque, a utilizzare l’app.
La condotta in esame è stata attuata attraverso una procedura in-app di accettazione dei nuovi Termini caratterizzata dall’informazione sulla necessità di tale accettazione, entro 30 giorni, a pena di dover interrompere la fruizione del servizio; l’inadeguata evidenziazione della possibilità di poter negare il consenso alla condivisione dei dati con Facebook, la pre-selezione dell’opzione (opt-in) e la difficoltà, infine, di poter esercitare concretamente tale opzione una volta accettati integralmente i termini.
L’altro procedimento istruttorio, avviato, nei confronti di WhatsApp Inc., per presunta vessatorietà di alcune clausole del modello contrattuale sottoposto all’accettazione dei consumatori che vogliano usufruire dell’applicazione WhatsApp Messenger, si era invece concluso con l’accertamento della vessatorietà delle disposizioni che prevedono:
– esclusioni e limitazioni di responsabilità in capo a WhatsApp molto ampie e assolutamente generiche, inclusa quella che discende dal proprio inadempimento;
– la possibilità di interruzioni del servizio decise unilateralmente da WhatsApp senza motivo e senza preavviso;
– il diritto generico esercitabile da WhatsApp di risolvere il contratto/recedere in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo e non consentire più all’utente l’accesso/utilizzo dei servizi, senza prevedere un analogo diritto per il consumatore;
– il diritto generico esercitabile da WhatsApp di introdurre modifiche, anche economiche, dei Termini di Utilizzo senza che nel contratto vengano preventivamente indicate le motivazioni sulla base delle quali la società si vincola ad apportare le modifiche e senza neppure prevedere modalità per informarne in maniera adeguata l’utilizzatore, unitamente alla previsione del meccanismo di “silenzio assenso” che fa discendere l’accettazione dei nuovi Termini anche solo dalla mera inerzia inconsapevole dell’utente;
– quale legge applicabile al contratto e alle controversie quella dello Stato della California e quali unici fori competenti per la risoluzione delle controversie il Tribunale Federale degli Stati Uniti della California settentrionale o il Tribunale dello Stato della California;
– un generico diritto esercitabile da WhatsApp di recedere dagli “ordini” e di non fornire rimborsi per i servizi offerti, senza precisare in modo chiaro il contesto in cui tali operazioni si esplicherebbero;
– la generale prevalenza del contratto scritto in lingua inglese, in caso di conflitto con la versione tradotta in lingua italiana (accettata dall’utente), senza prevedere la prevalenza dell’interpretazione più favorevole al consumatore, a prescindere dalla lingua in cui la clausola è redatta.