di Giulio Saputo
Segretario Generale Giovani Federalisti Europei
Abbiamo appena celebrato l’anniversario della Liberazione, con un’estetica del ricordo che appiattisce in una zona grigia i morti di tutti i colori e di tutte le idee. Una logica narrativa assurda che ha portato alla ricostruzione dello Stato nazionale e a dimenticare una guerra civile europea per legittimare uno Stato che ben poco ha rivoluzionato nella sua burocrazia al momento del cambio di regime. Non soffermiamoci però su queste riflessioni ormai recluse all’ambito accademico, che hanno milioni di pagine a giustificarle, [1] bensì torniamo all’attualità. Continuiamo a parlare di Resistenza: [2] come si concretizza oggi il pensiero politico di quello che ha rappresentato il sacrificio di migliaia di persone per dei valori così alti che oggi ci vergogniamo nel sentire strumentalizzati? Dovremmo arrossire di fronte alle parole “libertà”, “democrazia”, “diritti”, “pace” perché sono state così tanto sfruttate che oggi non sappiamo più come si faccia a battersi veramente per esse. Gli italiani, gli europei, lo hanno dimenticato. Forse qualche passo indietro potrebbe essere utile per comprendere il presente, perché adesso ci troviamo come quell’indiano sui generis in Coda di lupo di De André che riflette, perse le coordinate culturali, ripetendo a se stesso “con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria”. Abbiamo perso la bussola, ci sentiamo soli in un mondo globalizzato e guardiamo al ritorno dei nazionalismi con l’impotenza di un’identità europea debole. La politica ha perso la sua dignità, ristretta nei confini nazionali e non liberata sul piano sovranazionale per il popolo e con il popolo europeo. Abbiamo asservito il cammino del processo democratico ad interessi vecchi di due secoli. Purtroppo la memoria, anche quella collettiva, è inevitabilmente selettiva e incompleta (come l’indiano allegorico prima ci ha riferito). Oggi sembra non esserci il tempo per ricordare, fuori dalle celebrazioni, il perché sia esistita una Resistenza e contro chi si sia combattuto o che cosa siamo riusciti lentamente a costruire dopo decine di milioni di morti. Eppure, ogni anno, quegli stessi morti ci giudicano dai monumenti (dal latino moneo, informare/educare) che laicamente sacralizziamo con corone civiche, ma che ormai non educano più nessuno se non i pochi fortunati superstiti dell’oblio. Uno degli obiettivi più essenziali della guerra al nazi-fascismo, [3] era quello di rendere impossibile il ritorno del totalitarismo e una nuova degenerazione dello stato nazionale. La soluzione proposta era la realizzazione di uno stato europeo capace di garantire la pace e la stabilità politica e sociale, nonché un esempio di solidarietà e libertà per tutto il mondo. Purtroppo non è stata ancora realizzata questa democrazia sovranazionale. La Resistenza rappresenta dunque un’ideale di lotta più attuale che mai, un obiettivo che dovrebbe esser portato a compimento. Cerchiamo quindi di capire le radici di una battaglia che oggi viene spesso declamata da molti ma è condotta con risoluzione da pochi.
Mario Albertini [4] (1919 – 1997) è stato un filosofo e un accademico che ha guidato il Movimento Federalista Europeo per molti anni, succedendo alla leadership di Altiero Spinelli. Qui troviamo una sua riflessione oltremodo attuale sul significato di Resistenza e impegno politico.
“È vero che la Resistenza non è finita perché i suoi grandi valori – la pace, la libertà e l’eguaglianza- sono ancora in pericolo. Ed è vero che la Resistenza e l’Europa sono strettamente collegate perché solo con una Europa libera e indipendente ci si può battere per il superamento dei blocchi e dell’imperialismo, cioè per la pace e l’eguaglianza di tutti i popoli. Dobbiamo dunque ricordare che questo collegamento, prima di esser un imperativo della ragion politica, è stato, nel tempo dell’Europa senza frontiere della Resistenza, un fatto di vita vissuta, testimoniato in modo indimenticabile dalla raccolta di lettere della Resistenza italiana e della Resistenza europea pubblicate in Italia da Einaudi. E dobbiamo tener presente che il fatto che la resistenza non è ancora finita si riflette in modo particolare nella formazione politica e culturale dei giovani. Ai giovani bisogna dire proprio questo: che la Resistenza non è finita.” (Mario Albertini, prefazione al libro Resistenza ed Europa)
Qui riportiamo la citazione di una fonte diretta tratta dal foglio clandestino del Movimento Federalista Europeo, «L’Unità Europea» [5], pubblicato in piena guerra di liberazione. Questo giornale ha diffuso il primo appello agli italiani all’insurrezione generale dopo l’Armistizio dell’8 settembre. [6]
«Nel crogiolo della Resistenza si è infine scoperta la solidarietà fra i popoli liberi del continente, che era rimasta finora nascosta dietro gli intrighi diplomatici e la politica estera delle alleanze e dell’equilibrio delle potenze. Si è scoperta la nostra comunità di destino, la quale vuole che libertà, pace e progresso siano dei beni di cui tutti i popoli europei devono congiuntamente godere o che tutti devono congiuntamente perdere. È perché l’Europa ha assistito indifferente, e alle volte divertita, all’agonia della libertà italiana, tedesca, spagnola, cecoslovacca che infine ha perduto quella stessa libertà, in tutti i suoi altri Paesi. Oggi francesi, jugoslavi, norvegesi, polacchi e tutti gli altri – finanche gli italiani, che sono gli ultimi venuti nella Resistenza, ma di cui i migliori sono stati i primi nella lotta contro il totalitarismo, perfino i tedeschi, che sono morti o che languono nelle carceri o affrontano nel silenzio e nell’oscurità, quasi senza speranza, le bestie feroci di Himmler – tutti sanno che le loro battaglie, le loro sconfitte, le loro vittorie sono comuni. Questa coscienza, maturata nel sacrificio di milioni di uomini, è il dato fondamentale e primordiale dell’unità dell’Europa libera.» («L’Unità Europea», numero di settembre – ottobre, 1944)
Norberto Bobbio (1909 – 2004) non crediamo abbia bisogno di presentazioni. In questo saggio, uno dei più grandi politologi italiani, analizza (anche molto criticamente) il Federalismo europeo e il suo contributo alla Resistenza.
“Non tutta la Resistenza fu Federalista. Ma certo il Federalismo fu un denominatore comune a vari gruppi che alla guerra di liberazione diedero vita; prova ne sia che i tre autori del Manifesto provenivano da regioni intellettuali e da esperienze politiche diverse. Fu uno dei punti programmatici del Partito d’Azione che riassumeva, più spesso amalgamati che fusi, tutti i motivi ideali dell’antifascismo approdato alla guerra di liberazione. Proprio attraverso l’esperienza della Resistenza esso si trasformò in programma d’azione. È stato notato giustamente che l’antifascismo democratico, prima di essere messo alla prova della lotta armata, cioè di una guerra che si combatteva su tutti i fronti d’Europa, e aveva condotto in pochi anni all’asservimento del Vecchio Continente al dominio hitleriano, si era generalmente posto il problema del dopo-fascismo esclusivamente come problema di rinnovamento e di risanamento dello Stato Nazionale, accusato di antiche e recenti colpe storiche, come il risultato difettoso di una rivoluzione mancata. Il Federalismo Europeo nasce invece nel crogiolo della lotta di liberazione, e pertanto è una componente essenziale, una parte viva della storia della Resistenza e ne ha seguito l’alterna fortuna. I motivi ispiratori della Resistenza europea si possono disporre su tre livelli: secondo che si consideri come guerra di liberazione nazionale in nome dell’indipendenza, come guerra contro il fascismo e in genere contro il dispotismo in nome della democrazia liberale, come guerra per un nuovo assetto sociale contro ogni tentazione di restaurazione dell’antico regime. L’ideale federalista si pone su questo terzo livello: la Resistenza non come restaurazione ma come innovazione. La Resistenza che deve insieme chiudere e aprire, distruggere per costruire, essere negazione non in senso formale ma in senso dialettico. Che non deve limitarsi a vincere il presente ma deve inventare il futuro. Il federalismo fu, ed è tuttora, una di queste invenzioni storiche. Per questo è legato a quel momento creativo della storia che fu la Resistenza Europea. Una delle più alte coscienze della Resistenza Italiana, Piero Calamandrei, scrisse: “Tutte le strade che un tempo conducevano a Roma conducono oggi agli Stati Uniti d’Europa”. (Norberto Bobbio, Il federalismo nel dibattito politico e culturale della Resistenza)
Luciano Bolis (1918 – 1993) [7] è stato un partigiano di Giustizia e Libertà decorato con la medaglia d’argento al valor militare. Ha dedicato tutta la sua vita e il suo impegno al Movimento Federalista Europeo.
“(…) il federalismo è particolarmente indicato, proprio perché non ci porta a difendere situazioni del passato; gli ideali della Resistenza certamente restano, ma esso è disposto a spazzare via tutto il resto che va spazzato via. Non vogliamo fare della storia un museo: abbiamo delle cose da difendere che difenderemo, ma abbiamo anche delle cose del passato nei confronti delle quali – una volta di più l’esempio di Salvemini insegna – una severa critica va esercitata. Direi che questo appello ognuno lo dovrebbe rivolgere prima di tutto a se stesso nel momento in cui forse è in gioco tutta la formazione della futura generazione; perché dipende dal risultato di questa partita che l’insegnamento, i libri di testo, la stessa formazione degli insegnanti, possano assumere un indirizzo piuttosto che un altro. Evitando quindi di sedersi nel mezzo senza prendere posizione, adottando un atteggiamento di ignavia, di inerzia, di panciafichismo che non contribuirebbe certo ad affermare valori che meritano di essere affermati positivamente, sottolineando invece la continuità del filone che dall’antifascismo va alla Resistenza e dalla Resistenza al federalismo ed alla costruzione della democrazia di domani (…) è colpa nostra se oggi ci troviamo di fronte a una gioventù assolutamente impreparata a valutare in termini storici il fenomeno della Resistenza e del post-fascismo. La responsabilità è degli stessi antifascisti, per non essersi sufficientemente preoccupati di questo aspetto della loro missione – senza parlare delle responsabilità di coloro che ora si apprestano a sfruttare questa diffusa ignoranza falsando in modo così assurdo la storia, nei confronti dei quali non possiamo che nutrire il più profondo disprezzo – (…). (Luciano Bolis, Intervista sull’antifascismo)
Il testo della storica Cinzia Rognoni Vercelli ci riporta ad una visione completamente differente rispetto a quella tradizionale di approccio allo studio del processo di integrazione europeo, mostrando quanto in realtà non si tratti di un percorso tracciato solo da statisti o da grandi personaggi. Sono i movimenti dal basso che hanno avuto il coraggio di opporsi ad un’Europa meramente intergovernativa, per rilanciare con forza la necessità di un esempio di democrazia sovranazionale e federale.
“La storiografia tradizionale ha, infatti, confinato al solo piano nazionale la propria prospettiva analitica. Tale approccio ha certo favorito la convinzione che il processo di unificazione europea fosse un problema concernente esclusivamente gli Stati e la loro politica estera e diplomatica e che, quindi, non potesse essere studiato che con la metodologia e i criteri propri della storia delle relazioni internazionali. L’Unione europea, pur essendo nata mediante una procedura classicamente internazionale quale il trattato tra Stati sovrani, è stata concepita sin dall’inizio secondo un disegno ben diverso da quello normale nelle relazioni diplomatiche, quello che, appunto, mediante i trattati dà luogo a mere situazioni di cooperazione internazionale. In altri termini, il processo d’integrazione europea non può essere considerato come un semplice processo di carattere intergovernativo destinato a generare un’alleanza sempre più stretta tra Stati che, pur cooperando in alcuni settori politico-economici, intendono conservare intatta la propria sovranità. Sin dall’inizio, il progetto di Monnet ha avuto la natura di un vero e proprio progetto costituzionale, anche se ristretto a un solo settore. Gli Stati, dando vita alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, non si sono limitati a stipulare un semplice trattato internazionale, ma hanno ceduto una parte dei loro poteri a una struttura che, articolandosi nelle istituzioni fondamentali della democrazia – quella che Jean Monnet indicava come “les premières assises concrètes de la fédération européenne”- possiede non pochi caratteri propri della statualità. Dal punto di vista metodologico per la storiografia tradizionale risultava, così, sempre più difficile far rientrare fatti quali la cittadinanza, il voto europeo, la politica sociale, etc., negli schemi della storia delle relazioni internazionali se non al prezzo d’introdurre un numero crescente di variabili. Era opportuno, pertanto, avviare un filone di ricerca che non si focalizzasse unicamente sulle iniziative di governi e istituzioni, ma approfondisse, almeno in egual misura, gli studi sull’azione di costruzione dal basso, quella condotta da soggetti di natura non governativa e non-istituzionale fra i quali, oltre ovviamente ai gruppi di pressione economico-sociali, alle singole personalità, sono i movimenti per l’unità europea. In quest’ottica uno dei punti di vista storiografici che si possono utilizzare è quello dell’analisi del rapporto dialettico tra il fattore della “iniziativa”, promossa dai movimenti europeisti e federalisti, e quello della “esecuzione”, vale a dire le scelte delle forze politiche e sociali costrette a muoversi quotidianamente sul terreno dell’esistente. Se, a distanza di cento anni, gli storici concordano sull’importanza decisiva del pensiero e dell’azione di Mazzini per l’unificazione italiana, oggi, uno dei compiti della ricerca storica è pur quello di accertare il contributo che hanno dato alla costruzione europea le avanguardie. Anche restando spesso ai margini della battaglia politica, i movimenti hanno avuto una funzione importante nell’indirizzare il corso degli avvenimenti e un ruolo rilevante nell’indicare l’obiettivo da raggiungere. La loro azione, a lungo trascurata dalla storiografia, sembrava pertanto dover essere oggetto di maggior attenzione”. (Cinzia Rognoni Vercelli, Gli archivi europeisti e federalisti e il ruolo della Fondazione Bolis)
Nella speranza di riuscire a ritrovare la consapevolezza e il significato pieno delle parole “la Resistenza non è ancora finita”, non dobbiamo abbandonare una battaglia di cui ci è stata lasciata la pesante eredità, nonostante tutto quel che possa accadere e per quanto il mondo intorno a noi ci appaia in rovina. Portare avanti questa idea e questo sogno di pace, democrazia e libertà riassunto dalle parole “Federazione europea” dipende quindi soprattutto dal piccolo contributo di tutti noi nel quotidiano e dal senso di responsabilità che riusciremo a dimostrare di fronte alla storia che insistentemente sta bussando alla nostra porta. C’è una speranza e una via da percorrere per uscire dalla crisi che ci attanaglia come civiltà, seguiamola! Per dirla con Mazzini, dobbiamo trovar la forza di esser quel tipo d’uomo che “in mezzo alle rovine, annuncia una parola d’avvenire”. E allora contro il ritorno degli odi xenofobi, del nazionalismo di destra e di sinistra, dell’economia elevata a scienza esatta; rispondiamo con la più umana delle proposte: la politica. Ventotene non è stato un sogno, ma una soluzione razionale ad una tragedia. Spetta a noi cittadini europei far sì che il passato non si ripeta e ricordare perché dobbiamo batterci come partigiani per gli Stati Uniti d’Europa contro i nemici di ieri e di oggi.