Sono tre i nodi che dovranno affrontare gli europeisti e i sovranisti che si contendono i 751 seggi del prossimo Parlamento europeo e che proveranno a formare una maggioranza a Strasburgo da lunedì 27 maggio: l’indifferenza dei cittadini, la divergenza dello sviluppo economico tra i Paesi membri, le riforme inattuate.
Sul primo punto, è il crescente tasso di astensionismo a mostrare come gli europei siano sempre più indifferenti alle sorti del governo dell’Unione. Vedremo come andrà il 26 maggio ma alle scorse consultazioni europee, nel 2014, si è registrata la più bassa affluenza di sempre. Il declino, fin dalla prima elezione, è stato implacabile: dal 62% del 1979 al 42,61% del 2014 non c’è stato un anno in cui gli elettori siano aumentati e il fenomeno di bradisismo europeista ha riguardato in particolare i Paesi fondatori: in quarant’anni in Germania si è passati dal 66% al 48%, in Francia dal 61% al 42%, in Italia dall’85% al 57%. Nel Regno Unito, da sempre euroscettico, l’affluenza non ha mai superato il 40% (36% nel 2014) ed è difficile che con la Brexit sempre dietro l’angolo possa cambiare qualcosa in questo convulso e per certi versi inspiegabile 2019. Solo nei Paesi dove il voto è obbligatorio, come Belgio e Lussemburgo, gli elettori effettivi hanno sfiorato il 90% cinque anni fa, anno in cui slovacchi, cechi, polacchi, sloveni, ungheresi, croati, lettoni, rumeni e portoghesi non sono riusciti però a portare alle urne più del 30% dei cittadini.
Lo scarso interesse per il voto, destinato a influenzarne l’esito, è spiegato da un recente Eurobarometro secondo cui la maggior parte degli europei considera molto basso il suo impatto sulla legislazione europea, nonostante questa abbia invece – spesso a loro insaputa – una ricaduta molto ampia sulle loro vite. Solo un terzo degli europei ha un’opinione positiva del Parlamento europeo, mentre la maggioranza relativa (43%) è neutrale, ovvero se ne disinteressa. Appunto, coloro che potrebbero astenersi. L’Europa è nel guado e il voto giovanile sarà decisivo, visto che saranno nove milioni i diciottenni a recarsi per la prima volta alle urne. Che lo spettro astensionismo partorisca una rivoluzione?
A vedere il secondo punto, quello delle divergenze economiche, qualche dubbio sulle reali possibilità di cambiamento viene. Il cammino dell’integrazione ha avuto un passo da gambero, si è passati dalle grandi speranze al ritorno delle piccole patrie. Dal 1957 al 2007 i poveri sono scesi dal 41% al 14% della popolazione europea e la ricchezza delle famiglie è cresciuta di ben quattro volte, con una riduzione delle disuguaglianze che non ha avuto eguali nella storia, ma l’ultimo decennio di crisi ha invece capovolto questo processo. Si sta allargando la forbice tra i ricchi e poveri e tra regioni arretrate e sviluppate. L’80% della nuova ricchezza va al 15% della popolazione più agiata e quelche è più grave, crescono le asimmetrie, soprattutto per i giovani. In molti Stati membri i salari reali sono fermi dal 2008. Per la prima volta da mezzo secolo, le nuove generazioni sono in difficoltà: 23 milioni di europei tra i 15 e i 34 anni non studiano e non lavorano. Ben 118 milioni, il 24% della nostra popolazione, sono a rischio povertà o esclusione sociale in un continente che resta però il più benestante del pianeta. Questo alimenta la rabbia sociale, la discriminazione, in alcuni casi la violenza e il razzismo. Non è una novità per l’Europa, se si pensa ai motivi che hanno portato alle grandi rivoluzioni. Oggi come ieri il divario tra i cittadini è amplificato da una costruzione comunitaria che ha permesso all’Est di crescere meglio e senza limiti rispetto all’Ovest della moneta unica e dei vincoli di Maastricht. Un rapido giro d’orizzonte tra due Paesi simbolo di questa Ue conferma la crescente distonia.
Scampata finalmente alla Troika, la Grecia dovrà comunque pagare interessi su un prestito di 274 miliardi ben oltre il 2060 e dopo aver cambiato quattro governi, fatto 450 riforme e privatizzato anche le terme, la povertà è raddoppiata, come il suo debito. Metà dei cittadini soffre di problemi di salute mentale, mancano le medicine, i suicidi sono aumentati del 40%, il finanziamento degli ospedali si è dimezzato e sono quadruplicati i senza tetto. Il Paese di Tsipras ha una magra consolazione: con qualche euro in tasca pagherà i creditori ma, rispetto al 2008, il suo Pil è ancora indietro del 24%. Forse era meglio la Grexit.
La Germania di Angela Merkel dall’Ue e dall’euro ha avuto quasi tutto. Si è ripagata i costi mostruosi della riunificazione grazie al fatto che l’euro discende dall’Ecu, cucito negli ultimi due anni intorno al marco; ha incassato quasi 1.000 miliardi di capitali in arrivo grazie allo spread, dal deprecato Quantitative Easing ha ottenuto per la sua Bundesbank utili aggiuntivi per 2 miliardi di euro. Mentre il suo surplus vola incontrastato ben sopra il 7% del Pil e persino dal salvataggio greco ha guadagnato 2,9 miliardi di interessi, la disoccupazione è passata in dieci anni dall’8 al 5%, il debito è l’unico a rispettare il parametro di Maastricht, passando dal 64,9% del 2008 al 65,7% sul Pil nel 2018. Ora avrà probabilmente la poltrona della presidenza dell’Eurotower e del Consiglio o della Commissione europea.
L’Europa unita è quella del modello egemone tedesco o è rappresentata dal dramma greco?
Infine, il terzo punto che peserà sul voto e sul futuro dell’Ue sono le riforme. Quelle da fare sono ancora tantissime e la stasi negli accordi comunitari di certo non aiuta. Oltre alla necessità di completare l’Unione bancaria e di varare la tutela centrale dei depositi, che va di pari passo con la vigilanza della Bce, si è fermi anche sull’Unione fiscale, che dovrebbe appianare le varie disparità di trattamento offerto nella stessa eurozona alle multinazionali e ai giganti del web. Le questioni in sospeso peraltro non si fermano qui. Si va dal bilancio pluriennale, per cui la Commissione ha proposto di aumentare quasi tutte le voci di spesa, portando dall’1,1% all’1,3% la quota sul Pil dei contributi nazionali, su cui manca l’accordo dei vari Stati membri. Il nuovo assetto del budget, aumentato a 1.150 miliardi di euro, servirebbe a irrobustire l’azione dell’Ue sulla lotta ai cambiamenti climatici, la gestione dei flussi migratori, la protezione delle frontiere esterne, il varo della Web Tax.
Sul campo, come obiettivi raggiunti in parte o in toto, restano, in questo quinquennio che va a concludersi, il bilancio in chiaro-scuro del Piano Juncker da 400 miliardi di euro di investimenti, che non ha dato la fiammata sperata all’economia europea, il salvataggio della Grecia (ma a che prezzo per Atene), della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda, la cancellazione dei costi di roaming, l’intesa di Parigi sul clima, alcuni accordi commerciali, monchi di quello più importante, saltato, con gli Stati Uniti, la direttiva sul copyright. Sono invece rimasti lettera morta l’istituzione di un bilancio dell’eurozona, l’istituzione di un ministro unico delle Finanze, che meglio sarebbe se fosse del Tesoro con possibilità di emettere debito comune, e la revisione della politica industriale e delle regole antitrust comunitarie per permettere la nascita di campioni transnazionali.
Un bicchiere mezzo pieno che rischia di sparire agli occhi di chi dall’Europa non ha ricevuto né aiuto né benefici diretti.