Piero Graglia è professore di Storia dell’integrazione europea all’Università di Milano. Biografo di Altiero Spinelli, fa parte del Comitato scientifico dell’Associazione La Nuova Europa.
Un muro non è mai neutrale. Un muro divide sempre.
Per molto tempo il continente europeo ha ospitato gli esempi più celebri di barriere e muri eretti dall’uomo. Il muro di Berlino, parte della più ampia «cortina di ferro» e prima di esso la linea Maginot e la linea Sigfrido, esempi di idiozia militare, erano tutti simboli di contrapposizione ideologica e fisica, che restano nella memoria come e alla pari della Grande Muraglia cinese (altro esempio di barriera che si è rivelata assolutamente inutile).
Poi, nel tempo, dopo il grande 1989 europeo, la scena è stata occupata da altri esempi di barriere, non meno inutili e non meno odiose: il muro Tra Stati Uniti e Messico, opera iniziata nel lontano 1978 dal democratico Carter; il muro tra Israele e Palestina, costruito all’inizio degli anni 2000 ufficialmente con motivazioni antiterroristiche ma in realtà per consolidare l’azione colonizzatrice di Israele nei confronti dei territori occupati; e tanti altri esempi di barriere e muri In Africa, nella penisola arabica, in Asia, in America Latina. A volte alla base di questi muri sta il timore di un nemico, molto più spesso la difesa da un «migrante», un essere umano che si muove.
L’Europa, intesa come Unione europea, sembrava essersi emancipata da questa pratica rozza e meccanicamente ostile. Sembrava che l’idea dell’unità e dell’integrazione – il modello europeo – facesse premio sulle differenze che avevano ispirato in passato l’esistenza di barriere, materiali e immateriali, ma tutto questo non ha retto alla prova del tempo, e soprattutto non ha retto alla prova dei flussi migratori.
La soluzione di un problema reale – l’afflusso di persone in cerca di salvezza e di fortuna – non è unica: si possono cercare modalità di promozione dell’integrazione culturale per i nuovi arrivati; si possono stringere accordi con i Paesi di provenienza per promuovere sviluppo e migliori condizioni di vita nei Paesi di provenienza (ciò che rozzamente si sintetizza nello slogan «aiutiamoli a casa loro» dimenticandosi che tale pratica è costante per gli europei dal 1960 in poi, con evidentemente pochi ma significativi successi e molti insuccessi); ma di certo la costruzione di barriere si rivela sempre la strada meno efficace, più costosa in termini economici e umani, più odiosa moralmente perché rende aleatorio di fatto quel principio fondamentale che è il diritto d’asilo per persone in fuga da conflitti e situazioni di crisi.
Il fatto che pochi giorni fa, in questo 2021 che è anche l’ottantesimo anniversario del Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita, ben 12 Paesi dell’UE (Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Repubblica Slovacca) abbiano chiesto all’UE di finanziare la costruzione di barriere per contenere l’afflusso di migranti è invece un salto di qualità che non può e non deve essere ignorato. Tale richiesta, beninteso da adempiere con fondi dell’UE secondo i richiedenti, rappresenta alla fine un corto circuito politico.
Per anni gli stati dell’UE hanno infatti rifiutato, Italia in testa ai tempi del governo giallo-leghista di Conte, di dare all’Unione quelle competenze per renderla in grado di gestire i flussi migratori. Oggi questi stessi stati, immemori di quanto hanno negato all’Unione, le chiedono di essere parte attiva nella costruzione di barriere anti-migrante, e battono cassa. Un atto che non solo è contrario ai principi della Carta dei diritti dell’UE, in particolare a quanto scritto nell’art. 19 (Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione): «1. Le espulsioni collettive sono vietate. 2. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti»; un atto che è anche un manifesto politico che richiede una risposta politica.
Un muro, una barriera che tenga fuori una massa di popolazione, si configura come un allontanamento forzato, e per certi versi anche come una espulsione collettiva qualora operi come una zona di transito per decidere sulla successiva espulsione.
Dopo aver rifiutato per anni che l’UE avesse competenza su queste questioni adesso questi Paesi chiedono il suo aiuto, accompagnati in Italia da Salvini che cavalca il tema ma che come ministro dell’Interno ha sempre rifiutato di dare all’UE una qualche competenza aggiuntiva in questo campo.
Il problema migratorio è reale, sarebbe assurdo negarlo e dire «va tutto bene». Ma questo problema, i flussi migratori da aree di crisi o endemici in cerca di migliori condizioni di vita, deve essere affrontato con gli strumenti esistenti, quelli della cooperazione, degli aiuti allo sviluppo, della integrazione, della inclusione, non con muri e militarizzazione delle frontiere. Militarizzare una frontiera è sempre una sconfitta in anticipo, verso qualsiasi nemico, perché si tratta di un processo che porta a una guerra latente, di tutti contro tutti, una guerra in cui la prima vittima è il senso di umanità e di condivisione.
Sarebbe bello che un moto collettivo si levasse, nel nostro Paese e in altri in Europa, contro questa deriva; sarebbe bello che le comunità locali, attraverso i Consigli comunali, anche del più piccolo borgo, si pronunciassero contro una politica che punta a creare nuovi muri in Europa.
Poche parole basterebbero: «consci della storia europea, attraversata da contrapposizioni fatali e irrazionali; consapevoli dell’esperienza di integrazione europea e inclusione condivisa che essa rappresenta; nell’80esimo anniversario del Manifesto di Ventotene, per un’Europa libera e unita diciamo convintamente NO alla costruzione di nuovi muri ai confini dell’Unione europea».
Sarebbe bello, e molto «europeo».