Diversi decenni fa il grande storico e diplomatico americano Henry Kissinger chiese retoricamente un numero di telefono per parlare con l’Europa, visto che non c’era nessuno in grado di rappresentare in modo unitario le posizioni europee nello scenario internazionale. Gli Stati europei durante la guerra fredda erano divisi e non riuscivano ad esprimere delle posizioni comuni. Finita la guerra fredda si ebbe la percezione che le cose stessero cambiando. La fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 furono un periodo di grande europeismo nel vecchio continente: le frontiere tra gli Stati erano state improvvisamente aperte e a mala pena si poteva scorgere un gendarme nel raggio di chilometri, l’euro sostituiva nei mercati rionali le diverse monete nazionali e il Parlamento Europeo discuteva la possibilità di una costituzione comune, propedeutica magari ad una sorta di governo. Agli inizi del nuovo millennio, insieme all’introduzione dell’euro, si pensò anche di dotare l’Unione Europea di un Alto Rappresentante per la politica estera, proprio per dare alle potenze mondiali come la Cina e gli Stati Uniti quel numero di telefono per parlare con l’Europa che chiedevano da diverso tempo. Nacque così il ruolo di Alto Rappresentante per la politica estera, una sorta di ministro degli esteri europeo, a cui si affiancò dopo il 2007 un quasi-ministero di sua competenza: il Servizio Europeo per l’Azione Esterna. Nel 2007 l’Europa sembrava, almeno sulla carta, in grado finalmente di rispondere alle sfide del prossimo futuro come attore unitario.
Dieci anni dopo possiamo dire senza ombra di dubbio che questo grande e ambizioso tentativo di unire l’Europa non solo economicamente, ma anche politicamente, è in crisi. Questa crisi europea è evidente in tutti i settori, da quello economico a quello sociale, ma è particolarmente grave nelle relazioni esterne, uno degli ambiti più delicati del progetto di integrazione. La politica estera dell’UE nonostante la buona volontà del suo attuale Alto Rappresentante, Federica Mogherini, e i suoi tentativi di assumere delle posizioni incisive in alcune materie, come nei rapporti con l’Iran, sta sperimentando una disomogeneità crescente nel nuovo bipolarismo internazionale che si sta creando tra Russia e Stati Uniti. Gli Stati europei sono quasi tutti membri dell’Alleanza Atlantica, eppure si sono posizionati in modo molto diverso nelle continue crisi internazionali che hanno caratterizzato gli ultimi dieci anni. Nel 2003-2004, durante la guerra in Iraq, Germania e Francia speravano di esprimere una posizione autenticamente europea opponendosi a quello che chiamavano l’imperialismo americano nel mondo. Al contrario la Gran Bretagna e i Paesi mediterranei, Italia e Spagna in testa, sostenevano il ruolo degli Stati Uniti nella “guerra al terrore” contro Paesi dittatoriali sospettati di aiutare e finanziare Al Qaeda. Anche allora l’Europa era divisa, ma le istituzioni europee si schierarono più o meno apertamente dalla parte di Parigi e Berlino e si parlò molto della possibilità di convincere i governi mediterranei a distaccarsi dall’asse atlantico per aiutare Bruxelles ad esprimere una posizione autenticamente europea. Tante parole e niente fatti si dirà, visto che alla fine neanche in quegli anni si riuscì a formulare una posizione forte che dicesse quale ruolo l’Europa poteva giocare nel mondo. Tuttavia quella buona volontà, quelle parole di riavvicinamento, quella fame d’Europa non si ravvisa più negli ultimi eventi internazionali.
Nel nuovo bipolarismo che contrappone Washington a Mosca e che ha sostituito l’idea della guerra al terrore dell’epoca Bush, i ruoli in Europa si sono invertiti. La Spagna si è chiusa in un crescente isolazionismo e disimpegno, allontanandosi dall’asse mediterraneo che si era creato tra Berlusconi e Aznàr. L’Italia si è lentamente allontanata dagli Stati Uniti, avvicinandosi alla Germania nel tentativo di mediazione tra Putin e i presidenti americani che hanno succeduto Bush. Il nuovo protagonismo internazionale che si è venuto a creare, e che è stato sperimentato con successo durante le primavere arabe, è quello che lega tra loro Parigi, Washington e Londra e che ha ormai reso la Francia il primo interlocutore politico degli americani sul continente. Dall’Ucraina alla Siria, passando per la Libia e per l’intervento in Mali, il protagonismo francese degli ultimi anni ha trovato una sponda transatlantica, garantendo un ruolo privilegiato prima a Hollande e poi a Macron nelle considerazioni della Casa Bianca. Questa intesa è stata rappresentata plasticamente dalle immagini della parata militare a Parigi a cui ha partecipato il neo eletto Donald Trump nel febbraio scorso. In un momento difficile in cui si trovava all’inizio della sua presidenza, un Trump isolato dagli alleati venne invitato a Parigi in una grande manifestazione di stima reciproca e di riconoscimento pubblico. Il segnale era chiaro. L’amicizia tra Parigi e Washington, iniziata con Hollande e Obama, poteva continuare.
Nel nuovo mondo bipolare che stiamo vedendo la Francia sostituisce la Germania come interlocutore privilegiato degli USA, a scapito di ogni possibile posizione europea. Se oggi il segretario americano Pompeo dovesse chiamare il numero dell’Europa, quello dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini, sembra improbabile che si possa affrontare qualche argomento diverso dal tempo che fa a Washington e Bruxelles. Tentare di comprendere gli eventi in Siria vuol dire non solo vedere la punta dell’iceberg dei bombardamenti russi o americani, ma comprendere le dinamiche di un ordine internazionale che sta cercando nuovi equilibri. Anche se Trump, May e Macron tentano di nascondersi dietro al fatto che ad intervenire in Siria siano stati “Tre membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU” (citazione dell’intervista di questa settimana al presidente francese) non si può fare a meno di notare come i membri del consiglio di sicurezza siano ben più di tre e che l’ONU sia composto da un numero di Paesi più cospicuo rispetto a quelli membri della Nato. La realtà è che dietro all’idea di diritto internazionale e di rispetto dei diritti umani, temi tipici della fine della guerra fredda e di quel mondo “multilaterale” che si immaginava, c’è ormai nei fatti un unilateralismo americano sostenuto dagli europei in ordine sparso, che tenta di reagire alle sfide provenienti in diverse aree del mondo: Africa, Vicino Oriente e Pacifico. L’Unione Europea non solo non sa come riprendere il tentativo di una narrazione comune, ma forse per la prima volta dagli anni 2000 sembra quasi non avvertirne più l’esigenza. Tornando a Macron colpisce come nell’intervista di più di due ore rilasciata a due giornalisti francesi il presidente, in una splendida cornice iconografica, abbia parlato poco o nulla della politica estera francese in relazione a quella europea. La Francia può ora chiedere di sedere al tavolo con Gran Bretagna, Russia, Turchia e Stati Uniti per tentare di influenzare il futuro dei martoriati Paesi a ovest dell’Iran. Nel resto d’ Europa la percezione degli eventi è differente. Austria e Ungheria simpatizzano apertamente con Putin, mentre i Paesi baltici temono da un momento all’altro un’invasione russa che non arriverà mai. L’Italia potrebbe a breve vedere un passaggio definitivo da una politica tradizionalmente filo atlantica ad una filo russa, mentre gli altri Paesi più piccoli in questa partita tornano alle alleanze storiche tradizionali con le grandi potenze. Insomma di posizione comune non c’è più neanche il tentativo e sembra che questa Europea, che crede sempre meno in sé stessa, nell’agone dei rapporti internazionali abbia definitivamente rinunciato a combattere.