Due anime popolavano la platea che Sabato scorso ha riempito la sala Carlo magno sull’isola Tiberina. Una ha apprezzato il discorso di Steve Bannon, l’ideologo di Trump che ora si aggira per l’Europa come un vecchio spettro faceva nell’800. L’altra è rimasta sorpresa negativamente. Il riferimento allo spettro che si aggira per l’Europa non è casuale ed è il risultato di una considerazione che piano piano si è fatta strada nella mia mente, mentre dal palco il suo accento americano aizzava contro il “partito di Davos” quell’anima del pubblico che è rimasta soddisfatta della sua dirompente invettiva.

Sono convinto che, mai come oggi, il socialismo sia a destra. E Bannon lo ha dimostrato in vari momenti del suo discorso. Per prima cosa, Davos: per chi non lo sapesse, è con questo nome che Bannon identifica tutto ciò che è élite. Banchieri, finanzieri, politici, avvocati, imprenditori. Per Bannon fanno tutti parte dello stesso grande complotto mondiale che porterà alla “distruzione della razza umana”.

Sono perfidi, sono assetati di ricchezza e accrescono la propria fortuna togliendone ai lavoratori. Il discorso di Bannon è stato una continua sponda tra il bene e il male, tra i buoni e i cattivi, tra chi è genuinamente onesto e chi invece vuole sfruttare i lavoratori fino all’osso. “Sfruttare i lavoratori”, era un po’ che non si sentiva questa espressione. Quantomeno nei paraggi progressisti.

Ma “popolo buono contro élite cattiva” non è nulla di nuovo, in Italia come nel mondo. E forse per questo Bannon non è piaciuto a una certa altra anima del pubblico meloniano. Il suo discorso è stato, in questo, un mero ripetere ciò che i leader socialisti del ‘900 gridavano dalle piazze di Europa. Classe lavoratrice contro classe sfruttatrice. Bannon ha descritto i lavoratori italiani come “criceti sulle ruote” prima, come “servi della gleba russi” poi. Ha paragonato, chissà quanto casualmente, i lavoratori europei dopo la globalizzazione ai contadini della Russia zarista. E ha poi incoraggiato i nuovi “schiavi russi” a ribellarsi. Considerando quale conseguenza ha avuto questo nella Russia del 1917, si può certamente rimanere sorpresi che queste parole siano passate inosservate in una kermesse di Fratelli d’Italia.

Bannon ha sfoderato un populismo pre-populista: nel senso che è andato a recuperare quell’ideologia che nei libri di storia viene chiamata “populista” che, proprio nella Russia zarista agli inizi del secolo scorso, cominciava a prendere piede. Un’ideologia che credeva la verità e la giustizia insite nelle masse e nel popolo. In sostanza, se si vuole trovare ciò che è giusto, lo si trova nel “popolo”.

E il politico americano ha più volte lasciato intendere questo. Ha per esempio detto che se dovesse scegliere tra il farsi governare da uno di Davos e da una persona qualsiasi del pubblico sceglierebbe la seconda, perché chi era lì ad ascoltarlo, secondo la sua convinzione, era sicuramente di animo buono e avrebbe saputo scegliere meglio dei corrotti e spietati finanzieri. E’ la vecchia storia del “meglio un incapace in buona fede che un capace in cattiva”. Far governare dal basso è un’idea che è sempre stata presente nei socialismi europei, ed ha portato personaggi come Krusciov o Breznev a tenere in mano le redini del secondo blocco mondiale. Uno contadino, l’altro operaio. Krusciov aveva imparato a leggere da adulto. I soviet avevano l’idea che che più si scendesse nella scala delle cariche più si poteva trovare un buon capo.

E alla radice del populismo è questo: l’adulazione delle masse, il corteggiamento del popolo, il dar loro ragione a prescindere. Ha giustificato la disoccupazione, la fuga di cervelli e il calo demografico europeo con il fatto che i giovani “sono razionali e intelligenti”. Tutti. Queste considerazioni, davvero populiste, sono state ciò che ha diviso il pubblico. C’era chi applaudiva ogni volta che la traduzione giungeva con qualche secondo di ritardo nelle cuffiette distribuite all’entrata. C’era chi invece ha trovato questo ammiccare al popolo una falsità ed un’esagerazione.

Alcuni hanno opposto al “populismo-socialismo” di Bannon la loro visione, che credevano condivisa in quella platea, per cui l’elitarismo è necessario e il popolo va guidato. Di questa idea erano i ragazzi, giovani, ancora probabilmente non lavoratori e che credono in una “destra sociale”. Non certo nel socialismo. Che invece pare appartenere a Steve Bannon al punto che, in conclusione del suo discorso ha citato due figure carissime alla sinistra e ai socialisti: nel dichiarare di sentirsi onorato di essere a Roma ha ricordato i Gracchi, figure che, nell’antica Roma, per combattere l’élite patrizia e proprietaria sacrificarono la propria vita. Un riferimento culturale inedito e che ha spiazzato molti.

D’annunzio e Ezra Pound sono solo un ricordo, e considerando che pochi mesi fa Casapound ha tenuto un incontro sul Che Guevara riconoscendone come merito di essere “nazionalista rivoluzionario”, sembra che a destra ci si avvicini sempre di più al popolo e che questo glielo riconosca.

Nella palude di sinistra, intanto, non si riesce a formulare un messaggio che riesca a superare il confine dei centri delle città. Steve Bannon è l’emblema della destra che mantiene il vecchio popolo mentre fagocita sempre più elettorato dallo schieramento opposto.

Come nelle tattiche militari dei grandi generali, attacca da un fronte riconoscibilmente e da un altro a sorpresa, chiudendo l’esercito nemico in una morsa che non gli lascia scampo.

I progressisti sono nel centro di quella morsa e chissà cosa ci vorrà per imparare a spezzare quella tenaglia.