a cura di Gianvito Brunetti
L’agenda strategica stilata dal Consiglio per il quinquennio 2024-2029 pone l’accento sulla necessità di rafforzare la sicurezza e l’indipendenza economica europea diversificando i sistemi di approvvigionamento dell’Unione. Obiettivo ambizioso, soprattutto se inserito nel contesto delle politiche su un’Europa green.
“Ciò che faremo ora definirà il prossimo quinquennio e la posizione dell’Europa nel mondo per i prossimi cinquant’anni”. Ha esordito così la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen nel discorso programmatico per la propria rielezione durante la prima plenaria di Strasburgo.
Quasi una risposta a quel malcelato monito dell’ex premier Mario Draghi, nel corso della conferenza stampa a La Hulpe, nella quale avvertiva della necessità per l’Unione Europea di riformare le proprie politiche abbandonando strumenti che hanno mostrato un’insufficiente capacità di risposta nei confronti delle sfide del presente e del prossimo futuro.
Parole che evidenziano però anche il desiderio di compattare la maggioranza agendo in linea di continuità con la precedente legislatura e lavorare per un’Europa all’altezza delle sfide ambientali e, al contempo, capace di mitigare le conseguenze economiche derivanti da questo orientamento green.
La lettura di Draghi
La commissione europea, nel corso degli ultimi mesi, aveva infatti commissionato a due ex premier italiani, Enrico Letta e Mario Draghi, la redazione di due rapporti sul mercato unico e sulla competitività. Da entrambi emerge, seppur con un diverso approccio sistemico, la necessità di mutare l’orientamento politico adottato dal sistema istituzionale europeo.
Nel dettaglio, quello redatto da Draghi propone una vera e propria rivoluzione che punti a modificare l’assetto giuridico dell’Unione, soprattutto con riferimento al sistema antitrust rispetto alle linee estremamente stringenti poste dall’attuale testo dell’articolo 107 del TFUE.
Draghi ha evidenziato poi come storicamente la competitività abbia rappresentato una “dangerous obsession”, facendo eco alle parole pronunciate da Paul Krugman nel 1994 quando affermava la necessità di costruire una competitività di lungo termine basata sulla produttività e non sul miglioramento della posizione relativa rispetto agli altri competitor.
È però altrettanto vero che l’approccio dato dall’Unione successivamente alla crisi del debito sovrano sia stato caratterizzato dal deliberato tentativo di concorrere alla riduzione del costo dei salari, combinando il tutto con politiche procicliche che hanno causato una naturale contrazione della domanda e un fallimento del modello sociale.
Al di là delle note metodologiche sullo sviluppo della competitività europea, si rende necessario confrontarsi con il panorama internazionale per poter comprendere la necessità di adottare una propria politica industriale. Emblematici sono gli esempi posti da Draghi in riferimento a Cina e Stati Uniti: la prima sta cercando con successo di internalizzare tutte quelle fasi produttive legate ad un’economia green, che rappresenta l’obiettivo principale della politica dell’Unione; dall’altro lato, gli Stati Uniti che, attraverso una politica industriale su larga scala, stanno adottando strumenti per rendere nuovamente attrattiva e maggiormente indipendente anche dal punto di vista della supply chain la propria economia.
L’ex premier ha evidenziato i tre elementi maggiormente critici emersi dall’analisi dei settori strategici: l’“enabling scale” all’interno dell’economia europea, elemento particolarmente rilevante nell’industria bellica in cui i cinque maggiori player rappresentano solamente il 45% dell’industria della difesa contro l’80% di quello americano; il sistema delle telecomunicazioni, che vede la presenza di 34 gruppi sulle linee mobili contro i tre statunitensi e i quattro cinesi, mostrando ancora una volta una debolezza derivante dalla scala economica delle imprese; l’approvvigionamento di beni pubblici, come emerso nel contesto pandemico, in cui la presenza di piccole strutture nazionali non permette di usufruire di quei benefici di scala che altrimenti deriverebbero dall’adozione di una politica unica. Nell’economia europea emergono così diversi colli di bottiglia legati alla mancanza di coordinazione con bassi ed inefficienti investimenti. Altro esempio emblematico è rappresentato dal mercato dell’energia che richiederebbe linee di approvvigionamento delle risorse e degli input che siano sicure e non vulnerabili.
Un ultimo avvertimento importante riguarda le politiche commerciali attuate dai nostri partner per fronteggiare questo mutevole panorama economico. Nello specifico Draghi dichiara: “[…] nel migliore dei casi, queste politiche (riferendosi alle pratiche commerciali estere ndr.) sono realizzate per reindirizzare gli investimenti all’interno delle proprie economie; nel peggiore dei casi, sono realizzate per renderci perennemente dipendenti da loro”.
In questo scenario geopolitico risuonano le parole pronunciate a Bruxelles dalla commissaria europea Margrethe Vestager quando definì le politiche commerciali un “side dish” rispetto alle grandi sfide del presente. Alla commissaria Ue, hanno fatto subito eco le parole dei suoi omologhi statunitensi, da sempre strenui sostenitori della libera concorrenza, definendo l’antitrust “no side dish”.
Guardare avanti
Il tema centrale di questa nuova Commissione, in breve, sarà quello di valutare la fattibilità di misure, se non vere e proprie politiche industriali, al momento non previste dal TFUE se non in via residuale dall’art. 173.
Un utile supporto a nuove e più ambiziose decisioni potrebbe giungere alla commissione dall’osservazione dei dati sulle politiche industriali di alcuni paesi UE ed extra-UE. Un recente rapporto OCSE, su nove nazioni, (Canada, Danimarca, Francia, Irlanda, Israele, Italia e Paesi Bassi) evidenzia il crescente interesse di questi governi a realizzare politiche attive su industrie selezionate con varie modalità che variano in base al tempo e all’industria. Nel 2021, questi paesi hanno mediamente finanziato le politiche industriali con circa l’1,4% del proprio PIL, valore che oscilla tra il 2,25% della Francia e del Regno Unito e lo 0,75% di Irlanda e Canada. Inoltre, è possibile osservare come la maggior parte di tali finanziamenti sia stata destinata a industrie quali energia, trasporti e manifattura, lasciando invece in fondo alla lista dei finanziamenti la gestione dell’acqua e le costruzioni con valori prossimi allo zero.
Tuttavia, per affrontare le sfide che attendono l’Unione, sarà indispensabile riconoscere la necessità di una svolta strategica. In un contesto globale in cui le soluzioni del passato non sono più sufficienti, l’Europa dovrà essere pronta a rinnovarsi per restare competitiva e all’altezza delle nuove sfide economiche e politiche.