di Roberto Sommella
Sembra incredibile. Ci troviamo come nel 1848 a dover scegliere tra Austria, Ungheria e Francia. Se una parte leghista del governo sembra pericolosamente affascinata dalle sirene nazionaliste dei paesi del blocco di Centro Est, l’intero esecutivo si fa trascinare in uno scontro con i padri dell’illuminismo e in fondo di quella che possiamo definire oggi società civile, polemizzando con Emmanuel Macron sui pur importanti principi dell’accoglienza.
L’Europa è troppo antica e carica di storia per cercare di capirla con la cronaca e le prove muscolari degli esecutivi del momento. C’èinfatti una lettura diversa dall’ortodossa tradizione che fissa la nascita dell’Europa unita nel momento in cui alcuni paesi un tempo in guerra decisero di metter in comune l’acciaio con cui forgiavano le armi per uccidersi a vicenda. Ed è quella del sessantotto dimenticato, a scapito di quello parigino, di Praga, Varsavia, Belgrado, non solo fulcro del ricongiungimento dell’Est all’Ovest ma matrice delle tante pulsioni disgregatrici di oggi. Lo spunto per capire il senso dell’incontro tra Matteo Salvini e Viktor Orbàn, i due gemelli diversi del neo nazionalismo, subito andati in contrapposizione proprio con Macron, paladino dell’europeismo, ce lo offre Milan Kundera, a dimostrazione che a volte la letteratura svolge il suo compito a lungo termine.
In un articolo pubblicato nell’ormai lontano 1983 dalla rivista Débat,con il titolo “Un Occidente sotto sequestro, o la tragedia dell’Europa centrale”, lo scrittore ceco insorge contro la divisione artificiale che aveva tagliato in due il continente deportando all’Est il mosaico delle piccole nazioni centro-europee, situate geograficamente al centro, culturalmente in Occidente e politicamente ad Est, col risultato di proiettarle fuori dalla loro stessa storia. E spiega quello che sta accadendo ai nostri tempi. L’Europa nata nel 1957, sostiene Kundera, è il centro delle contraddizioni piuttosto che il big bang dell’Ue. Non è più un impero in via di consolidamento e di unificazione, e neppure quella struttura federale chiamata ad assorbire progressivamente gli Stati che la compongono, auspicata da Altiero Spinelli, ma una zona rossa ove si scontrano due modi di concepire la società: quello neo imperiale di Bruxelles, che si concretizza nell’unificazione forzata, nell’armonizzazione teutonica delle norme e nell’imposizione delle stesse; e quello rivoluzionario, dei praghesi e prima ancora di tutti i popoli che si erano sollevati contro ogni volontà di dominio e di assimilazione con vero spirito europeista. Queste due forze contrapposte sono le stesse che si fronteggiano ancora e generano l’instabilità strutturale dell’architettura comunitaria che cede sempre di più sotto la spinta dei tantissimi movimenti populisti.
La rivolta ungherese nel 1956, la primavera di Praga e l’occupazione della Cecoslovacchia nel 1968, gli innumerevoli moti polacchi, ieri preludi del crollo finale del sistema sovietico, sono così l’asse attorno al quale è nato il criticismo sovranista del gruppo di Visegrad, che tanto piace e attira il governo italiano a trazione Salvini-Di Maio. Questi momenti storici, unendo i paesi del Patto di Varsavia a quelli dell’Alleanza Atlantica, hanno costituito l’Europa molto più dei suoi trattati, che invece hanno costruito quasi a tavolino l’Unione Europea. E quella che appare come l’insostenibile leggerezza dell’integrazione comunitaria, al centro dell’azione demolitrice del premier magiaro, nasce da ribellioni lontane rimaste però nel dna di quei popoli.
Strette fra i tedeschi da una parte, e i russi dall’altra, queste nazioni dimenticate dalla carta geografica, hanno speso mille energie nella lotta per la loro sopravvivenza, contrastando in oltre cento anni l’impero austroungarico, le invasioni di Hitler, il giogo di Stalin. E oggi si sentono assorbite da un nuovo Moloch, quell’unione di diversità che tanto gli ricorda le vecchie annessioni e che evidentemente paesi come la Francia non hanno vissuto, semmai combattuto sin dai tempi di Napoleone. Possiamo dire, sinceramente, che sentiamo anche noi italiani come oppressiva la partecipazione europea, non avendo vissuto per decenni nel cuore di tenebra sovietico e avendo invece contribuito con Parigi e Berlino ad edificarla? Il nazionalismo nostrano, con basi politiche ed economiche opposte (per dirne una: Budapest incassa oltre 3 miliardi metti dall’Ue, più o meno quelli che invece versa in più Roma) ha qualcosa in comune con quello dei paesi dell’ex impero di Francesco Giuseppe? Ovviamente no. Se vogliamo davvero salire sul carro di Visegrad dobbiamo quindi essere consapevoli che potrebbe essere armato e senza ritorno. E che da quel mondo ci siamo affrancati 160 anni fa.
Non ci siamo invece affrancati e forse non ci affrancheremo mai dalla Francia (c’è chi pensa sia un male, io no), il paese che ci ha aiutato a diventare indipendenti e che, bisogna anche ammetterlo, si sta riprendendo tutto con gli interessi, avendo pervaso con la sua finanza un’ampia fetta della nostra economia ed essendo sempre molto competitiva in politica estera, si tratti del problema dei migranti a Ventimiglia o della Libia. Ma può bastare questa predisposizione alla conquista francese per dire che non abbia ragione Macron nel lanciare l’allarme sui rischi che derivano dai neo nazionalismi? Comunque la si pensi e ammettendo le difficoltà del suo giovane presidente, non si può dimenticare il contributo storico, politico e illuminista del suo paese alla vita dei diritti in giro per il mondo.
Per fermare una deriva che sembra condurre a una guerra di secessione europea, occorre non abbandonarsi a polemiche del momento e ricordarsi come si è arrivati in Europa a far prevalere l’uomo su ogni prevaricazione: garantendo, appunto, la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza. Mai come oggi la stella polare dei diritti dell’era moderna rappresenta l’unica bussola per chi si è perso nell’Europa dei confini, dei fili spinati, delle bugie digitali che si fanno verità. Condividere uno spirito comune e tenerci per mano, come fecero Helmut Kohl e Francois Mitterrand per suggellare la pace dopo due guerre mondiali, a Verdun, appare l’unica strada possibile. L’alternativa è inseguire di nuovo i fantasmi del nazionalismo dei primi del Novecento.
In questo contesto, l’Italia dovrebbe dare il suo contributo, insieme alla Francia e alla Germania, a tutti i livelli, dai media alle scuole, per ribadire ancora quegli antichi principi universali, presidiando le istituzioni, rafforzando il ruolo dell’educazione, garantendo ogni giorno a tutti la cittadinanza, incalzando gli stanchi partiti tradizionali europei ed esigendo dai governi in carica il rispetto delle minoranze e delle opposizioni.
Tracciando, soprattutto, una linea rossa invalicabile tra il lecito antieuropeismo e le sue pericolosissime derive che si chiamano razzismo, xenofobia, antisionismo, che contaminano la nostra comunità. I governi, tutti i governi, passano. Le radici democratiche restano. Per questo, non potremo che scegliere ancora la bandiera della Marianna per non finire intrappolati negli Spielberg dei nuovi Metternich.