Sarà un giorno amaro quello in cui gli inglesi confronteranno i punti dell’accordo raggiunto dall’ex premier David Cameron per restare nell’Unione Europea con quelli che Theresa May ha siglato per uscirvi. In quel momento capiranno che quanto stabilito nella notte dell’8 dicembre può diventare la loro Waterloo. Intanto, l’hanno compreso i ribelli conservatori che hanno costretto la premier a tornare in Parlamento a sottoporre i termini e i costi dell’addio definitivo. Dalla Brexit alla “Brein” il passo potrebbe essere breve. Basta analizzare i fatti.
Innanzitutto, è molto importante la parte del memorandum in cui si stabilisce che i cittadini europei, circa 3 milioni, residenti oggi in Inghilterra, manterranno i loro diritti e verranno considerati al pari dei cittadini britannici. Per otto anni su tutte le questioni verranno chiamati ad esprimersi i tribunali dell’isola, che dovranno però tener conto delle decisioni della Corte di Giustizia Europea. L’intesa di Cameron, che sarebbe diventata peraltro vincolante in tutta l’Unione, permetteva invece a Londra di azionare un ‘’freno d’emergenza’’ di ingresso dei cittadini non britannici, limitando poi l’accesso ai servizi sociali dei nuovi lavoratori per quattro anni.
Per quanto riguarda l’assegno di divorzio, il conto da versare a Bruxelles sarà tra i 45 e i 55 miliardi di euro, ma nel frattempo la Gran Bretagna dovrà continuare a pagare almeno fino al 2022 il suo contributo al bilancio europeo. Ma se si rilegge l’accordo Cameron-Tusk concretizzato poi nel documento del febbraio del 2016 dal Consiglio Europeo, si scopre che la Gran Bretagna avrebbe ottenuto la possibilità di non entrare mai nell’euro senza spendere un penny per i salvataggi di altri paesi, garantendosi peraltro la permanenza nel mercato unico, la blindatura della piazza finanziaria di Londra con conseguenti risparmi di spesa probabilmente ben superiori a 50 miliardi di euro e la possibilità di bloccare iniziative legislative con un quorum del 55% dei parlamenti dei paesi aderenti all’Unione. Un ‘’cartellino rosso’’ che May non avrà una volta fuori dall’Unione.
Dal punto di vista amministrativo, secondo quanto stabilito dal patto dell’Immacolata, la Gran Bretagna resterà almeno due anni, dopo il 29 marzo 2019, giorno in cui finiranno le trattative, sottoposta alla legislazione europea. In cambio riceverà ancora i fondi comunitari. Ma, aspetto non marginale, non cadrà il divieto di aiuti di stato. Se un’impresa o una banca falliranno, il governo di Downing Street dovrà quindi sempre chiedere l’autorizzazione alla Commissione come un qualsiasi altro partner. Il pacchetto sovranità di Cameron prevedeva una maggiore agibilità e per sempre, perché al Regno Unito veniva formalmente riconosciuto uno status ‘’speciale’’ grazie al quale poteva non essere chiamato a siglare e a partecipare ad accordi su moneta unica, Trattato di Schengen, sicurezza e giustizia.
L’Inghilterra, sempre sulla base di quanto stabilito tra Theresa May e dal Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, scomparirà poi dal punto di vista della rappresentanza politica. Non avrà più un commissario e nemmeno i 73 deputati, che saranno divisi o tra paesi dell’Ue o eletti, come propone il presidente francese, Emmanuel Macron, con una lista transnazionale. Nessuna poltrona nemmeno per i vertici europei. Tutto ciò, evidentemente, non sarebbe accaduto con il lodo Cameron, se avesse vinto il Remain al referendum del giugno 2016.
Infine, dal punto di vista commerciale, non c’è alcun elemento per valutare se Ue e Gran Bretagna andranno verso un accordo come quello firmato con il Canada da Bruxelles. In assenza di esso, tutto verrà regolato dalle norme del Wto. Ma è ancora più incerto il destino di tutte le normative finanziarie, che invece sarebbero rimaste in vigore senza la Brexit. La City, dove si scambiano al giorno derivati denominati in euro per oltre 800 miliardi di euro, oggi rischia di rimanere con un buco nella sua legislazione. Proprio per questo, il sindaco di Londra, Sadiq Khan, sta cercando di restare dentro il mercato unico, nella speranza di diventare una sorta di Hong Kong occidentale.
Questo accordo è quindi troppo brutto per essere buono per gli inglesi e troppo peggiorativo rispetto a quello ottenuto prima della consultazione referendaria. Quello che sembra un compromesso per l’Unione, che ci avrebbe perduto in autorevolezza se avesse vinto il Sì all’Europa, rendendo cogenti grandi concessioni all’autonomia dell’Inghilterra, è diventato una vittoria. Lecito aspettarsi che gli inglesi, da qui al 2021, ci ripensino, prima di diventare sudditi non solo della Corona ma anche dell’Euroburocrazia.