Tra i tanti interventi dedicati alla ricorrenza del 4 novembre, festa della Repubblica, spiccano quelli del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in un’intervista al Corriere della Sera a Marzio Breda, e di Michele Ainis, sulle pagine dell’Espresso. Le riportiamo in parte per focalizzare l’attenzione sul tema del momento: come declinare nelle odierne democrazie i termini patria e nazione e il loro rapporto con l’Unione Europea .

Sergio Mattarella al Corriere della Sera 4/11/2018)

Oggi possiamo dirlo con ancora maggior forza: l’amor di Patria non coincide con l’estremismo nazionalista. L’amor di Patria viene da più lontano, dal Risorgimento. Un impegno di libertà, per affrancarsi dal dominio imposto con la forza: allora da Stati stranieri. Dopo la Grande Guerra fu una parte politica a comprimere la libertà di tutti. In questo risiede il profondo legame tra Risorgimento e Resistenza. Per adoperare parole del presidente Giovanni Gronchi, “una coscienza nazionale che si rinnova, che attinge ai valori supremi spirituali e storici che la Patria sintetizza, che rende imperiosa l’esigenza dell’autonomia e dell’indipendenza verso ogni egemonia dei più forti”. L’amor di Patria oggi è inscindibile con i principi della nostra Costituzione, che ne sono il prodotto e il compimento». 

Tra le conseguenze della Grande guerra vi fu una profonda crisi economica e l’indifferenza alla morte di massa. È da catastrofisti cogliere analogie con la crisi economica apertasi nel 2008 e con l’abulia europea verso le guerre jugoslave degli anni Novanta?«Non pochi hanno paragonato la crisi economica del ’29 con quella deflagrata dopo il fallimento della Lehman Brothers. Penso che non sia improprio cogliere qualche assonanza: di certo, da quanto avvenne allora sono stati tratti insegnamenti utili per evitare in questi anni alcuni esiti catastrofici, che avrebbero fatto precipitare Paesi e popoli in una spirale recessiva ancor più grave di quella che comunque abbiamo dovuto affrontare. Quanto ai Balcani è giusto dire che ogni crisi, ogni tensione, ogni frattura che si determina in quella regione ci riguarda molto da vicino, più di quanto solitamente non si rilevi. Non è un caso che la Grande guerra sia stata innescata a Sarajevo. Ancora oggi è strettamente connesso ai nostri più vivi interessi un sempre maggiore sviluppo di convivenza pacifica e collaborativa nei Balcani, garantita dalla prospettiva di ingresso di quei Paesi nell’Unione europea. Abbandonare i Balcani a un destino di nazionalismi esasperati e contrastanti sarebbe un grave errore che l’Europa non deve commettere. Quella realtà ci riguarda e da essa possiamo trarre tutti insieme un ulteriore potenziale di sviluppo».

Lei ha detto di nutrire “un’innata diffidenza verso qualunque rischio di nazionalismo”, sentimenti comuni a tanti della sua generazione. Ritiene che quei rischi possano riaffacciarsi ora, in un’Europa che dopo 70 anni di pace e sviluppo sta perdendo centralità e slancio ideale?

«Non torneremo agli anni Venti o agli anni Trenta. Non temo la ricomparsa degli stessi spettri del passato, pur guardando con preoccupazione a pulsioni di egoismi e supremazie di interessi contro quelli degli altri: sarei allarmato da un clima in cui, più che concorrenza, si sviluppassero contrasti, poi contrapposizioni, quindi ostilità, ponendosi su una china di cui sarebbe ignoto ma inquietante il punto finale. Ma l’Europa si è consolidata nella coscienza degli europei, molto più di quanto non dicano le polemiche legate alle necessarie, faticose decisioni comuni nell’ambito degli organismi dell’Unione europea. L’interdipendenza tra i Paesi nasce anzitutto dallo sviluppo delle libertà, delle opportunità, delle risorse tecniche, economiche, culturali, civili che siamo riusciti a costruire in questi decenni di pace e di collaborazione. La libertà di movimento e di commercio, le medesime regole ormai consolidate in tanti settori economici e sociali, le innumerevoli iniziative e realtà comuni tra imprese, le sempre più strette collaborazioni nella ricerca e nelle professioni hanno prodotto un tessuto connettivo ormai indissolubile». 

C’è chi considera simili legami un’insopportabile camicia di forza.

«A volte questa interdipendenza appare a taluno come un vincolo, e questo determina reazioni. Per questo, di fronte a una crisi, a un’insufficiente capacità di governo dei processi globali, si cerca nel focolare domestico la protezione dagli effetti dell’interdipendenza. Ma nessuno Stato, da solo, può affrontare la nuova dimensione sempre più globale. Ne uscirebbe emarginato e perdente. Soprattutto i giovani lo hanno compreso. Sono cresciute giovani generazioni che si sentono italiane ed europee e lo stesso è avvenuto in ogni Paese dell’Unione e questo rappresenta il più forte antidoto ad antistorici passi indietro».

 

SOVRANISTI VOGLIONO UN SOVRANO 

di Michele Ainis (da Espresso) 
Uno spettro s’aggira per l’Europa, scrivevano nel 1848 Marx ed Engels. A quel tempo il fantasma si chiamava comunismo, adesso è il sovranismo. Categoria politica in apparenza più precisa, più chiara da definire e da comprendere, rispetto al populismo cui viene spesso apparentata; ma chissà poi se è vero. Sappiamo che la parola deriva dal francese souverainisme, e infatti il Front National dei Le Pen (padre e figlia) è un po’ l’antesignano dei partiti sovranisti. Sappiamo che questi ultimi s’oppongono al trasferimento di poteri e competenze verso ogni istituzione sovranazionale, cavalcando la rivincita del vecchio Stato ottocentesco contro le malefatte della globalizzazione. Sappiamo che Brexit ne ha rappresentato, finora, il successo più vistoso. Infine sappiamo che la voglia di confini, la richiesta d’una diga contro i barbari invasori, riecheggia sull’una e l’altra sponda dell’Atlantico. America First, tuona Donald Trump. Prima gli ungheresi, ruggisce a sua volta Victor Orbàn. O gli austriaci, per il cancelliere Kurz. O gli olandesi, come diceva Wilders, fondatore del Partij voor de Vrijheid. O i tedeschi, secondo l’Alternative fùr Deutschland di Alice Weidel, che in Germania, l’anno scorso, ha sbancato alle elezioni. O gli sloveni, per l’ex Primo ministro Janez Jansa. E owiamente, in Italia, prima gli italiani, ripetono in coro Salvini e Meloni, ma un po’ anche i 5 Stelle, e un po’ qualche formazione d’estrema sinistra, non soltanto alle nostre latitudini. Il protezionismo doganale viene infatti percepito come una misura in difesa degli strati più deboli della popolazione, come un soccorso per i cassintegrati, mentre l’euroscetticismo s’alimenta anche dei sentimenti d’awersione verso le politiche liberiste dell’Unione europea. Insomma, a quanto pare i sovranisti hanno una politica estera comune, non una politica interna, non la stessa concezione delle dinamiche sociali. S’incontrano sovranisti di destra e di sinistra, rossi o neri o gialloverdi. E semmai li accomuna una versione radicale del principio democratico, giacché quest’ultimo si nutre della relazione diretta fra cittadini e decisori, mentre le istituzioni sovranazionali sono remote, arcane. irresponsabili rispetto alle proprie scelte di governo. Errore, anzi doppio errore. Nessuno Stato può vestirsi di panni aggressivi verso l’esterno conservandosi pienamente democratico al suo interno. E il nazionalismo, l’autarchia, il respingimento dei migranti come Nessuno Stato può vestirsi di panni aggressivi verso l’esterno conservandosi pienamente democratico al suo interno fossero appestati, il presidio militare alle frontiere, incarnano per l’appunto una politica autoritaria. La storia, d’altronde, offre molte prove di quest’equazione. Per esempio l’Atene del V secolo, dopo la sconfitta nella guerra del Peloponneso: ne ricevette in sorte il governo dei Trenta tiranni, nonché l’eclissi delle antiche libertà. E a proposito di libertà, di diritti individuali e collettivi. O sono di tutti o di nessuno, giacché la libertà di pochi non è più un diritto, è un privilegio. I diritti costituzionali hanno una vocazione universale; e infatti il loro manifesto consiste nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, firmata a Parigi nel 1948, lo stesso anno di nascita della Costituzione italiana. Non a caso la parola «tutti» si ripete per 21 volte nel testo licenziato dall’Assemblea costituente. Perché i diritti sono indivisibili. E sono tutti uguali, senza gerarchie né graduatorie al loro interno. Se li togli agli immigrati, ne stai rubando un pezzo pure ai cittadini. Altrimenti sarebbe come dire che è possibile confiscare le libertà dei calabresi, senza intaccare le libertà degli italiani. È dunque questa l’anatomia del sovranismo: una stretta sui diritti, in nome della sicurezza interna, della difesa contro l’aggressore. Nei tempi di pericolo la Repubblica romana s’affidava a un dittatore; può succedere di nuovo, anche se adesso il pericolo è presunto, gonfiato ad arte per gonfiare le vele del consenso. E allora, gratta gratta, esce allo scoperto la natura illiberale dei partiti sovranisti. Il sovranismo è la voglia d’un sovrano.