Sulle rovine etrusche, romane e medievali presenti in abbondanza nei boschi e nelle campagne del Viterbese, i rovi prosperano e diventano una coltre sempre più fitta, che copre e nasconde; le radici degli alberi penetrano nei massi e li frantumano; l’acqua allaga e inonda; la terra si muove e frana. Il visitatore attento resta sbalordito da tanta bellezza in una sorta di sindrome di Stendhal. Lo stato di totale abbandono dei luoghi ne esalta il mistero e regala una sensazione di sorpresa legata al piacere della scoperta: qualcosa di simile a quello che i viaggiatori del Grand Tour devono aver provato visitando l’Italia.
La Tuscia è un grande scrigno stracolmo di tesori archeologici, naturalistici, storico-artistici, paesaggistici. Un’immensa ricchezza in massima parte sconosciuta anche agli amministratori locali e ai residenti. Non c’è, quindi, consapevolezza di quale straordinario patrimonio la storia abbia messo nelle nostre mani. Né di conseguenza c’è consapevolezza delle responsabilità che un patrimonio del genere comporta in termini di conservazione, valorizzazione e trasmissione alle generazioni future, né delle opportunità che quel patrimonio può offrire in termini di sviluppo, occupazione e crescita economica. Si pone dunque una questione: è giusto impegnarsi in una campagna di sensibilizzazione, per far comprendere che tipo di tesori siano custoditi in questo territorio ? O è meglio affidare ai rovi il compito di preservare e tramandare? In tanti anni di archeobike e di archeotrekking ho sempre pensato che fosse giusto battersi, affinché le amministrazioni locali riconoscessero il valore dei tesori presenti nel territorio. Muovendomi in questa direzione, sono andato a sbattere contro un muro di gomma. Da qualche tempo la certezza ha iniziato a vacillare. Si fa strada il dubbio che forse il miglior metodo di conservazione siano proprio l’incuria e i rovi. In fondo, sotto una coltre di rovi questi tesori sono arrivati fino a noi attraverso i secoli e i millenni. E se una “valorizzazione” fraintesa portasse ad abbattere lecci, querce, corbezzoli, per farne parcheggi in mezzo alla macchia con auto, pullman, chioschi di hot-dog e bancarelle cariche di paccottiglia? E se portasse soltanto a creare nuovi stipendifici, che con la loro ottusità burocratica mortificano il bello anziché curarlo? L’effetto della sindrome di Stendhal sarebbe perso per sempre. La questione resta aperta, ma intanto godetevi qualche scatto recente.