Parto da qui nell’analisi, perché mentre gli Stati Uniti decidevano di disimpegnarsi militarmente dal conflitto in una regione così strategica, mentre si saldava un’alleanza turco- russo-siriana anche in risposta alla saldatura tra i turchi curdi del Pkk e quelli siriani a ridosso della frontiera turca, l’Europa si mostrava nuda in tutta la sua pochezza geostrategica.
Per questo, mi sia consentito rilevare che, al di là della necessità sollevata dal nostro partito di una forza di interposizione che veda protagonisti le Nazioni Unite e l’Unione, cruciale sarà se nel Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre vorranno tracciarsi le basi di una vera politica estera e di difesa comune che vada ben oltre il timido balbettio di sempre, ancora più insufficiente in queste ore in cui al conflitto bellico siriano si aggiungono una pericolosa guerra commerciale tra gli Usa e la Cina, una Brexit ancora irrisolta e diverse altre gravide nubi che si addensano sul futuro europeo.
Dunque, il Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre non affronterà soltanto un ordine del giorno corposo e delicato, come la definizione del quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e della nuova Agenda strategica 2019-2024, ma per il modo in cui deciderà di affrontare queste incombenze, segnerà una direzione di marcia e un orientamento al futuro prossimo del continente unito.
Intanto, tutto possiamo fare, anche qui in Italia dove il pericolo appare scampato, meno che ritenere il populismo e soprattutto le ragioni che nel profondo vi danno alimento come sconfitto.
I popoli ci domandano giustizia sociale, maggiore democraticità delle nostre istituzioni, lotta alla corruzione, sostenibilità ambientale.
Che cosa deve fare il governo italiano negli appuntamenti, a cominciare da dopodomani, in cui è chiamato a far sentire la voce di uno dei grandi Stati fondatori dell’Unione?
La mia prima risposta, e la risposta del gruppo democratico è questa: l’Italia deve offrire, ed è capace di farlo, una visione ambiziosa dell’Europa del futuro.
Su cinque grandi pilastri che divengono cinque grandi matrici di intervento.
Predisposizione di risorse proprie e difesa delle politiche agricola e di coesione; green deal degli investimenti pubblici scorporati dal computo della disciplina europea del deficit; lotta al traffico illegale di esseri umani e accoglienza e rispetto dei diritti dell’uomo; social compact per un nuovo piano di sostegno al lavoro e all’inclusione; voce unica, vera e comune sulle sfide che ci consegna un mondo multipolare, facendo finalmente trascorrere la sicurezza e la difesa da una sostanzialmente inefficace cooperazione rafforzata al pilastro dell’Unione.
Nell’economia dei tempi di intervento, mi sia consentito un approfondimento solo quasi per titoli dei temi citati.
La nuova Europa non può continuare a reggersi solo sul contributo concordato degli Stati, bensì deve cominciare a fondarsi finanziariamente su una fiscalità propria finalizzata al corretto funzionamento del mercato unico e frutto di una progressiva armonizzazione delle politiche impositive dei singoli stati.
Le scelte di ampliamento delle risorse europee non possono che avere per focus le spese in settori ad alto valore aggiunto, ricerca, innovazione e agenda digitale, difesa e sicurezza, clima e ambiente ma guai a considerare meno strategiche le tradizionali politiche agricole e di coesione. Difendere la nostra agricoltura, la nostra pesca e il nostro allevamento è vitale per i nostri interessi e per il futuro dell’Unione e lavorare sulla convergenza delle aree politicamente svantaggiate resta la priorità del nostro concepire un’Europa più giusta e solidale.
Le parole per molti sorprendentemente progressiste della presidente Van der Layen sull’Europa ‘il primo continente neutrale dal punto di vista climatico dal 2050’ segnano la svolta ambientalista di un Green Deal per il continente e dobbiamo raccoglierle in tutte le sue implicazioni, a maggior ragione quando ella stessa invoca di ‘sfruttare tutta la flessibilità consentita dalle regole’, per la prima volta aprendo una contraddizione nell’inviolabile dogma dell’austerità.
L’Italia deve diventarne alfiere, chiedendo un vero ‘Pilastro per i diritti sociali’ per cui la giustizia sociale, l’accesso universale all’assistenza sanitaria e all’istruzione per la prima volta siano tra le priorità dell’Unione.
E il dovere di salvare vite umane e di rispettare la dignità di ogni persona sia caposaldo ribadito nella tutela dei diritti dell’uomo nel rapporto tra Ue e fenomeni migratori, tenendo insieme lotta all’immigrazione clandestina e allo sfruttamento con umanità, integrazione e diritti.
Infine il sostegno al diritto di iniziativa legislativa del Parlamento europeo rafforzerebbe il tasso di democraticità delle istituzioni europee avvicinandolo alle architetture democratiche degli stati nazionali.
Per molti anni dal fronte socialista del Parlamento, che ho avuto l’onore di guidare, ci siamo battuti per superare il dogma dell’austerità che ha caratterizzato decenni di politiche rigoriste e recessive in Europa.
E questo superamento lo pensavamo chiedendo di restituire piena dignità a entrambi i sostantivi del Patto di Stabilità e Crescita economica dell’Unione, chiedendo la flessibilità non fosse una sporadica e arbitraria concessione ma che nuovi investimenti pubblici e privati e scelte economiche e fiscali espansive fossero centrali per realizzare una crescita duratura e sostenibile per il continente.
Questa battaglia trovò a lungo opposizione radicale nei popolari e persino una certa tiepidezza in settori conservatori nordici degli stessi socialisti.
Ora siamo in una fase diversa.
L’arretramento dell’economia tedesca, la guerra dei dazi tra Stati Uniti e resto del mondo, l’uscita scomposta della Gran Bretagna, la crescita dei populismi sovranisti sono nubi che si addensano sull’economia e europea e mondiale e possono favorire un cambio di paradigma.
O almeno un allentamento dei rigori del Patto.
Questo allentamento può e deve essere ricercato, come dicevo, soprattutto facendo leva sull’economia verde.
Il Premier Conte e il Commissario Paolo Gentiloni possono davvero avanzare la richiesta di un nuovo patto fondativo: lo scorporo degli investimenti ambientali dal calcolo del deficit dei paesi dell’Unione.
Quella cioè che taluni chiamano la Golden Green Rule.
Se riuscissimo a inaugurare in tutta Europa, Italia capofila, una genesi di grandi investimenti contro il dissesto idrogeologico, di potenziamento delle energie rinnovabili, di cambiamento radicale del trasporto, da gomma a ferro, di sostegno alla trasformazione circolare del rifiuto, di ammodernamento della rete idrica finiremmo di fatto per ridare fiato alle nostre imprese, facendo ripartire economia e occupazione, migliorando la qualità della vita, della salute, dell’aria delle nostre comunità.
La sfida, io penso, è innanzitutto qui.
Invertire la rotta, senza estremismi ecologisti e anzi sapendo che tra nuova economia e ambiente v’è un circolo virtuoso di crescita, non di decrescita felice.
Non solo le giuste rivendicazioni che il popolo degli studenti avanzano sulla scia di Greta Thunberg debbono farci da monito.
Ma chiedere all’Europa si rimetta in moto la macchina dei lavori pubblici è essenziale per la nostra economia, per il nostro futuro. Vanno costruite case, ponti, autostrade, infrastrutture e va inaugurata una grande nuova politica industriale di transizione ecologica.
Se sapremo farlo davvero, guadagneremo prosperità e stabilità e saremo ancora una volta all’avanguardia della migliore qualità del vivere.
Se non sapremo farlo, i populismi riguadagneranno fiato e ne risponderemo alle future generazioni.