Ora che siamo nel pieno dell’emergenza e che tutta Italia è zona rossa, c’è qualcosa di innegabile riguardo all’impatto del coronavirus. Molto semplicemente, ha aperto una gran discussione su un ancora più gran numero di argomenti. Economia, cultura, responsabilità del governo, qualità dell’opposizione (per quanto già ampiamente argomento di discussione prima dell’avvento del virus): stiamo vivendo un momento senza precedenti.

La recessione sembra inevitabile e tutti, in maniera più o meno composta, iniziano a guardare all’Europa, già impegnata a pagare con poco più di una figuraccia a Lesbo la mancanza di una politica comune ed efficace sui migranti. La si guarda con un misto di rabbia e supplica, tra il “voi dove siete?” e il “ve ne preghiamo, il vincolo di bilancio lo dobbiamo ignorare”.

Le libertà da limitare sono tante, ed è difficile immaginare momenti di gravità simili in cui è stato sospeso ogni aspetto della vita dei cittadini italiani. Gli articoli 16 e 17 della costituzione sono sostanzialmente in funzione nella loro forma restrittiva, e chissà quando torneranno a garantire nuova linfa alle libertà costituzionali di movimento e riunione.

La sanità è al collasso: notizia di ieri, pare che in Lombardia stiano già limitando gli intubamenti. Già si punta il dito contro quei presidenti di Regione responsabili di tagli al sistema sanitario, e si sottolinea come il virus sembrerebbe aver avuto sortito l’effetto “positivo” di aver alzato finalmente il coperchio su precarietà, disponibilità di posti letto, ospedali chiusi, numero chiuso e via discorrendo. I numeri di questa crisi sono stati efficacemente sintetizzati da Alessandro Visalli sul suo blog[1]: l’analisi, al di là delle conclusioni, dimostra molto chiaramente che i mercati non saranno l’unico fronte del collasso se il trend non si invertisse immediatamente.

Le carceri, una dopo l’altra, si sono rivoltate causando situazioni estreme, come incendi diffusi, e morti interne alle mura dei luoghi di detenzione in circostanze poco chiare. Il sovraffollamento e le condizioni generali delle carceri sono diventati motivo di preoccupazione crescente negli anni, e per comprendere la situazione bisognerà aspettare che la situazione si calmi. Intanto, però, i decessi sono cresciuti, e si fanno frequenti e diffuse le richieste di adottare misure di arresto domiciliare, di amnistia e indulto.

Su quanto la classe politica e le istituzioni repubblicane siano oggi in grado di affrontare queste crisi scoperchiate tutte insieme è un mistero per la maggior parte dei cittadini. Ma lo scandalo più grande sinora affrontato sembrerebbe essere nato da un “concorso di colpa” delle dette istituzioni e, in maniera decisamente peculiare, del sistema mediatico.

È quest’ultimo che pare aver dato i suoi peggiori frutti negli ultimi giorni. Con una mossa scellerata, ha sfruttato in maniera tempestiva continue fughe di notizie e con contorni tragici quella sul DPCM. Se da una parte i governi (visto che non in Europa, ma in Italia ne abbiamo di fatto più d’uno) si sono mossi tardivamente, la gran parte delle testate è stata col fiato sul collo a chiunque avesse da dire la più insignificante sciocchezza sul coronavirus. Dai primi sviluppi alle psicosi anti-cinesi, testate arcinote o appena affermatesi non hanno perso un attimo né si sono fatte scrupoli per creare contenuti sempre nuovi e, conseguentemente, share. E mentre si moltiplicavano i click, in Italia nulla si è bloccato sino all’ultimo, dando luogo a fazioni opposte tra “allarmisti” e “corona-scettici”.

Dubbi sostanziali sono quindi sorti sul ruolo dell’attività di cronaca, piuttosto inutile nello stato attuale delle cose, in cui la Protezione Civile aggiorna quotidianamente attraverso i canali ufficiali su contagi, decessi e guarigioni, procedendo anche per regioni. Eppure sembrerebbe essere l’unica attività che i media italiani siano stati in grado di fare, aggiungendo al massimo pochi e scoordinati commenti e consigli su come lavarsi le mani.

C’è dunque qualcosa che è mancato in maniera sostanziale: la capacità di narrare la crisi, è mancata durante gli ultimi dodici anni mentre l’Italia e il mondo attraversavano la ricrescita più lenta e lieve della storia e mentre si avvicinano pericolosamente a un nuovo baratro, ed è mancata ancor più tragicamente in queste settimane. La rincorsa al click e allo spettatore, probabilmente, aiuterà il sistema mediatico italiano e le testate a galleggiare, ma presto o tardi ne determinerà l’inevitabile tracollo. Questo perché, molto semplicemente, non serve a nulla e nessuno.

Saper raccontare e creare una storia, invece, è molto utile. “Historia magistra vitae” non è un detto propagandistico, bensì un invito a guardare alla storia e cercare di non evitare i medesimi errori. E questo non è stato fatto dai media, troppo concentrati nel creare contenuti di cronaca per lo più inutili (risultati tali prima di tutti al vaglio dei notiziari). Per quanto possa essere economicamente sconveniente e altamente complesso, quello di creare una storia corrente è l’unico vero obiettivo del giornalismo. Non è un caso se nasce come narrazione degli eventi recenti, come analisi rivolta al futuro e come scoperta di aspetti inediti di un argomento.

Sino a che il servizio pubblico (anche da parte di chi pubblico tecnicamente non è) non sostituirà il baccano l’orizzonte è sempre lo stesso: il giornalismo sarà sempre più irrilevante. E, come sempre, si avrà una vergognosa storia del virus solo a tragedia conclusa.