Immancabile dal 2011, torna la dittatura dello spread che paralizza l’azione dei governi italiani. Tutto cominciò con l’ultimo esecutivo Berlusconi, accompagnato alla porta del Quirinale per le dimissioni da un livello di differenziale di interessi con i Bund tedeschi prossimo a sei punti percentuali. Poi proseguì per un po’ con il gabinetto tecnico Monti, fino a quando il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi fermò la speculazione sull’euro, ritornò in auge in alcuni momenti del ciclo Letta e ora, da almeno un anno, con la nascita del governo gialloverde di Conte, veleggia tra i 200 e i 300 punti, senza superare per ora il limite di non ritorno, cento gradini più in alto. Sono otto anni che ci si convive senza mai finire k.o.
Ma al di là delle indubbie ripercussioni che possono nascere dalla litigiosità politica, c’è da chiedersi se sia una valutazione corretta quella che i mercati danno del nostro paese. Senza farsi influenzare dall’ideologia.
Qualche dubbio c’è e chi scrive lo sostiene da quando si volle far passare l’idea che l’Italia potesse davvero far implodere tutta l’eurozona. I tempi, rispetto ad allora sono molto cambiati, oggi comanda la globalizzazione digitale e che il mondo vada ormai alla rovescia lo dimostra, tra tanti esempi, il fatto che Uber al suo primo giorno in borsa a Wall Street abbia capitalizzato più di quanto l’Italia paga di interessi sul debito in un anno: 82 miliardi di dollari. L’affitto di un’auto vale più del paese che si attraversa. Ma, appunto, quanto vale questo paese a monitor spenti?
La settimana economia al mondo e la terza nell’Unione, perennemente bocciata dai signori dei mercati, a fronte di un debito evidentemente molto elevato e di un’evasione fiscale patologica, ha uno stato patrimoniale invidiabile. Il debito privato, di famiglie e imprese, è ben sotto la media europea e mondiale, tanto che centrerebbe ampiamente il tetto del 60% sul Pil previsto dal Trattato di Maastricht. L’export è la forza trainante e ha toccato nel 2018 i 500 miliardi di euro, la sua bilancia è in surplus di quasi 40 miliardi, l’avanzo primario è all’1.6% del Pil, l’ammontare dei beni immobiliari dismettibili vale circa 400 miliardi, il Tesoro dipende solo per il 24% dall’estero per quanto riguarda i titoli di stato che emette. In questo contesto, la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è quasi vicina a 10.000 miliardi di euro, mentre aumentano i depositi. Questo quadro, fatto più di luci che di ombre, non convince però ancora le agenzie di rating che penalizzano oltre la logica il Belpaese. La decisione di Standard & Poor’s di mantenere la tripla B sembra tuttora eccessivamente punitiva se si guarda agli altri partner. Fatta eccezione della Germania, che vanta un rating imbattibile (da tripla A e outlook stabile), nonostante i suoi problemi con le sue grandi banche, il giudizio dei mercati appare molto più benevolo sulla Francia, che pur avendo un debito quasi al 100% mantiene la sua doppia A e uno spread pressoché a zero, e soprattutto sulla Spagna, che a dispetto di una costante instabilità politica attutita da governi di minoranza, dopo aver ricevuto aiuti per quasi 60 miliardi di euro nel passato, può ancora vantare una “A” e un differenziale di interessi che è meno della metà di quello italiano. La forza dei fondamentali dell’Italia, che peraltro non si è mai trovata nelle condizioni di dover chiedere aiuto e ha sempre pagato i suoi creditori, non è minimamente paragonabile con quella degli iberici. Eppure i mercati non si fidano e ci fanno pagare di più il denaro rispetto a Madrid in questa torrida campagna elettorale europea. Un’ingiustizia clamorosa.
Se poi si va a vedere il contributo che l’Italia da’ al contesto europeo, anche qui si trovano incongruenze tra la realtà dei fatti e la percezione che hanno gli analisti di un paese sempre in seconda fila. La lista del dare e dell’avere è nettamente sbilanciata sulla prima colonna perché paghiamo alla causa comunitaria molto di più di quello che riceviamo, ma siamo trattati come un Calimero qualsiasi. Alle varie operazioni salva-stati e salva-Grecia, abbiamo destinato negli anni quasi 50 miliardi di euro, mentre siamo il terzo contributore netto dell’Esm, con 14 miliardi. Sempre col portafoglio pronto ad aprirsi,arricchiamo pure il bilancio europeo. L’ultimo, quello del 2017, ci ha visto versare 12 miliardi per riceverne 9,8, destino comune a Germania (19,6 contro 10,9), Francia (16,2 contro 13,5) e Gran Bretagna (10,6 contro 6,3 ricevuti, che pesano sulla Brexit probabilmente). Ad Est, ha ricordato il Corriere della Sera, dove non esistono i vincoli teutonici di bilancio, si viaggia a vele spiegate perché si ottiene più di quel che si offre alla casa comune. In Polonia, in Ungheria, in Romania, si incassa due-tre volte rispetto a quanto si versa a Bruxelles e si cresce il doppio. Insomma, questa è la vera Europa a due velocità, chi ha l’euro e chi no. I primi crescono la metà dei secondi.
Sarebbe questo il vero spread che dovrebbe impensierire l’Unione e non tanto quello dell’Italia, che è ancora in credito con la narrazione comunitaria di chi ne ricorda solo i demeriti disconoscendo la sua forza. Anche perché nessuno negli ultimi dieci anni ha trovato davvero il coraggio di sottolinearlo da Palazzo Chigi, smentendo coi fatti chi pensa che contino più le dichiarazioni dei politici dello stato patrimoniale. Siamo forti, ma l’inconsapevolezza di esserlo diventa la benzina di chi soffia sul fuoco. E visto che col fuoco ci si brucia tutti è suicida tifare per lui