Il 31 agosto 2024 sono passati 117 anni dalla nascita di Altiero Spinelli.
Una delle domande più frequenti che mi sono state rivolte da personaggi interessati, curiosi, studenti è “che cosa Altiero Spinelli penserebbe dell’Unione Europea di oggi”.
Nel momento in cui Spinelli, insieme a Rossi, mise mano al testo del celebre «Manifesto di Ventotene» (il cui titolo completo è «Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto») era il 1941; l’anno peggiore della Seconda guerra mondiale, quello in cui ogni speranza sembrava annichilita dalla travolgente avanzata delle armate tedesche in Europa affiancate, in qualche modo, dalle affaticate forze armate italiane. In quel momento “l’Europa unita” era di fatto una realtà: l’occupazione tedesca aveva realizzato, effettivamente, l’unità europea. Una «Unione» che era l’applicazione di un modello oppressivo e schiavistico su tutti i popoli d’Europa. Nulla di cui oggi si possa sentire la mancanza o la desiderabilità.
I giovani di Ventotene non potevano immaginare ciò che sarebbe successo successivamente. Non potevano figurarsi la fine del ruolo egemone della Gran Bretagna in Europa, sostituita attivamente ed efficacemente dagli Stati Uniti d’America. Non potevano immaginare il “Piano Marshall”, né l’iniziativa che nel maggio del 1950 portò alla creazione della “Comunità europea del carbone e dell’acciaio”. Non potevano prevedere la nascita di una Comunità economica europea nel 1957. In poche parole, non potevano immaginare che i primi sforzi di integrazione pacifica e volontaria del continente – non quindi una conquista imperiale – sarebbero stati rivolti alla dimensione economica. Prioritario per Spinelli e per Ernesto Rossi era sempre stato l’aspetto politico, la “costituzionalizzazione” dell’unità europea, gli Stati Uniti d’Europa. Per questo motivo, quando la comunità economica europea nacque, Spinelli la dileggiò definendola la «beffa del mercato comune». Non potevano bastargli l’unione doganale e il mercato come quadro di una possibile unità politica.
In seguito, durante i molti anni di attività politica che Spinelli aveva ancora davanti a sé (morì nel 1986) pensò spesso ai modi per instillare la fiamma dell’unità politica nel corpo della Comunità economica europea. Lo fece come commissario europeo, dal 1970 al 1975, senza molta fortuna. Lo fece soprattutto come parlamentare italiano ed europeo dal 1976 al 1986: dieci anni in cui Spinelli cercò di portare avanti il ruolo costituente del Parlamento europeo, eletto a suffragio universale e diretto solo dal 1979, rendendolo l’assemblea costituente della futura Europa politica.
L’unione politica, quindi. Credo che Spinelli oggi continuerebbe a ricordare la priorità necessaria del processo di integrazione del continente: l’unione politica. Un’unione in grado di organizzare non solo il mercato unico, la politica agricola comune, la politica commerciale comune, l’insieme di norme condivise per la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali; un’unione che sappia parlare con una sola voce sullo scenario internazionale, dotandosi anche della capacità di far pesare il suo ruolo economico commerciale con una forza militare credibile; un’unione che sia di pace, la vera pace, quella dove i conflitti sono impossibili, dando senso alla interdipendenza esistente tra gli Stati e le nazioni, non solo europee.
Questo probabilmente direbbe oggi Altiero Spinelli: che siamo a metà del guado. Che abbiamo una moneta unica e una banca centrale ma non abbiamo il potere politico che gestisca il peso complessivo dell’Europa sulla scena internazionale. Che abbiamo ventisette diverse politiche di bilancio e ventisette differenti politiche sociali. Sarebbe schifato – quasi sicuramente anche fisicamente schifato – dal dilagare del populismo sovranista, dallo snaturamento delle forze politiche di sinistra e progressiste, che si rifugiano nelle ricette del socialismo nazionale; sarebbe inorridito dai vetero comunisti che salutano in Putin una forza legata alla “tradizione” quindi, tutto sommato, accettabile se quella tradizione è l’autoritarismo sovietico.
L’ultima frase del suo Diario europeo è “povera Europa!”. Ecco, probabilmente questo sarebbe il suo commento oggi, trentotto anni dopo la sua morte.