Porti in faccia all’Italia. Come previsto, il vertice informale di Tallin, proprio perché tale, non ha prodotto risultati concreti, se non una stretta sulle Ong e un impegno a fare di più in Libia, paese governato da due esecutivi e 400 tribù, dunque un non paese.
Nonostante le dichiarazioni di facciata di sostegno al governo Gentiloni che dovrà vedersela quest’anno presumibilmente con oltre 200.000 migranti in arrivo, Francia e Spagna, Germania e Belgio si sono opposte all’apertura di altri porti Ue, come invece proposto da Roma. “I ministri dell’Interno europei hanno raggiunto un accordo sulla necessità di accelerare il lavoro collettivo nell’attuazione delle seguenti azioni prioritarie per ridurre la pressione migratoria sulla rotta del Mediterraneo centrale e rafforzare il sostegno all’Italia: aumentare l’impegno per la Libia e altri Paesi terzi chiave; rivedere e coordinare meglio le operazioni di search and rescue (codice condotta ong); e i rimpatri”. Si legge in una nota della presidenza estone del Consiglio Ue.
Insomma acqua fresca, mentre è sempre più torrida quella del Mediterraneo. Non serve a nulla ricordare ora che l’Italia è prigioniera dell’accordo di Dublino, firmato senza indugio e che prevede che sia il paese dove vi sono gli sbarchi ad occuparsi di gestire gli immigrati, perchè la sua prima edizione è del 1997: prima delle Torri Gemelle, della crisi dell’euro, della morte di Gheddafi e della grande Recessione. Si piange su un latte versato ed asciugato da un pezzo.
La realtà dei fatti è che ora l’Europa rimette nelle mani dell’Italia, come ha già fatto con la Turchia, la gestione degli immigrati che arrivano dalla Libia. Messe sotto controllo le Ong, spetterà al governo di Roma decidere se chiudere o meno gli unici porti ancora aperti per migliaia di disperati: i suoi. Poi sarà fatta la volontà dell’Unione oppure affonderemo metaforicamente insieme a chi vuole un futuro migliore.
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