È inutile lamentarsi se una pianta si secca quando si annaffia quella sbagliata. È questa la sensazione che si ricava dalla prima fase del Quantitative Easing della Bce, rafforzato dalla nuova versione annunciata oggi dal suo Presidente, Mario Draghi. Gli analisti e ancor più i capi di governo, sembrano non capire la differenza sostanziale che passa tra il QE americano e quello europeo. Il primo, permettendo alla Fed di acquistare titoli di stato sul open market – cosa avvenuta abbondantemente dal 2008 in poi – drena risorse direttamente dal Tesoro che batte le aste e le immette nel circuito economico. La manovra ha funzionato, ha rilanciato l’economia Usa e portato il tasso di disoccupazione al 5%, che in pratica significa piena occupazione. Una cosa mai vista negli ultimi decenni. La misura comunitaria, invece, potendo l’Eurotower, per statuto, comprare Bot, Bund e Bonos solo sul mercato secondario e dunque non dai vari tesori nazionali, si immette nel circuito bancario, nella speranza che questi soldi, 1.100 miliardi di euro e ora molti di più, vadano anche a famiglie e imprese. Per usare un paragone forte: se si acquista un’auto nuova dal concessionario, i soldi finiranno nel bilancio della casa produttrice (è il caso del QE della Fed), se piuttosto la si compra usata, il denaro entrerà nel portafoglio del precedente proprietario (il QE della Banca centrale europea). C’è da augurarsi che qualcuno a Bruxelles capisca che così facendo si ridurrà il valore dell’euro e i tassi d’interesse senza incidere sulla carne e sulle vite di 300 milioni di cittadini.
Stavolta il Consiglio direttivo della Bce non ha infatti sorpreso i mercati e, un po’ meno delle previsioni della vigilia, ha deciso di tagliare il tasso di interesse sui depositi di 10 punti base, dal -0,2 al -0,3%, con effetto dal 9 dicembre 2015. Si tratta della mossa più attesa dagli analisti e forse anche per questo il bazooka ha depresso tutte le borse, che invece vivono di coup de teatre: dalla prossima settimana, gli istituti pagheranno di più (l’interesse è in negativo) per lasciare la loro liquidità parcheggiata sui c/c della Banca centrale europea. Una mossa che dovrebbe accelerare la messa in circolo della moneta perché tenerla a Francoforte diverrà davvero controproducente, soprattutto in previsione dell’aumento dei tassi americani. I saggi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali (quelle che forniscono la maggior parte della liquidità all’Eurosistema) e sulle operazioni di rifinanziamento marginale (quelle richieste dalle singole banche e della durata di una notte) rimarranno invece invariati rispettivamente allo 0,05% e allo 0,30%. Questo cambia poco lo scenario d’insieme.
Draghi, dal 2011 leader massimo nell’Ue, ha elencato in conferenza stampa l’insieme di strumenti messi in campo dalla Bce per supportare la ripresa economica e dei prezzi, sulle quali “non c’è stata unanimità ma una maggioranza molto ampia”: inutile dire che è stata la solita Germania ad opporsi a quello che per Berlino è il finanziamento dei debiti sovrani. Il board della banca centrale ha deciso di ritoccare anche il piano d’acquisto di titoli del Quantitative easing, esteso ora dal settembre 2016 al marzo 2017, o comunque finché non sarà nel mirino l’obiettivo di un’inflazione vicina al 2%. Questo per due motivi tecnici e uno squisitamente politico. Intanto, gli ultimi dati sull’inflazione sono stati negativi, il costo della vita è nuovamente retrocesso in territorio negativo a settembre e si fa fatica a non parlare di deflazione in Europa; in secondo luogo, il Prodotto interno lordo è appena sopra il massimo pre-crisi. È vero che l’Eurotower reinvestirà il rimborso dei titoli acquistati sotto il programma, alla loro scadenza, “finché ciò sarà necessario” e potrà acquistare anche titoli dell’Eurozona emessi da entità regionali e locali (va capito come), continuando a garantire liquidità illimitata e a tasso fisso fino a tutto il 2017. Ma è il momento di chiedersi se tutto ciò basterà di fronte a queste previsioni di crescita, minacciate da innumerevoli shock esterni (la caduta dei Brics e le tensioni internazionali) e interni (la paura degli attentati): aumento del Pil Eurozona dell’1,5% nel 2015 (era 1,4% a settembre), poi dell’1,7% nel 2016 (1.7%) e dell’1,9% nel 2017 (1,8%). Aumento (eufemismo) dei prezzi pari allo 0,1% quest’anno, all’1% nel 2016 (1,1%) e all’1,6% nel 2017 (1,7%). E c’è da chiedersi, e questo è il motivo più squisitamente politico, se la decisione della Bce di armare il suo bazooka fino al 2017 non sia da collegare al fatto che in quell’anno si voterà il referendum in Gran Bretagna per la sua uscita dall’Ue e per le presidenziali in Francia: due fattori di potenziale grande instabilità per l’euro. La pianta si secca, il cavallo non beve. Evidentemente il problema non è idrico.
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