I suoi concittadini dei Parioli, quartiere bene di Roma, ora anch’esso abbandonato al suo destino tra cumuli di spazzatura e oleandri fioriti ma piegati dall’ultima nevicata, si augurano di rivederlo presto in pianta stabile dalle parti del cinema Caravaggio aspettare la moglie per andare a messa come una persona normale, senza scorta. Probabilmente attenderanno invano.
Mario Draghi, l’italiano che a differenza di Malaparte è tutto meno che ‘’arci’’ a indicare l’esponenziale caratura dei vizi e delle virtù nazionali, difficilmente tornerà nella capitale, come il centro sinistra o i tanti circoli atlantici di aspeniana ispirazione auspicano, magari alla guida dell’ennesimo esecutivo tecnico o ovviamente al Quirinale. Il numero uno della Bce, voluto fortemente in quel posto da Silvio Berlusconi, sarà l’uomo che tutti desiderano ma non nel proprio giardino, quando sul far di novembre lascerà il suo incarico alla Banca centrale europea e questo paradosso lo rende il Ronaldo dei grand commis che difficilmente troverà una squadra a casa sua. Il suo futuro, ironia della sorte, è diviso a metà come la sua carriera: negli Stati Uniti, dove ha lavorato in Goldman Sachs e Banca Mondiale, lo vorrebbe Donald Trump, addirittura alla Federal Reserve, dimentico di averlo attaccato qualche ora prima per gli stessi motivi per cui lo osanna e qualcun altro invece lo pensa al posto della francese Lagarde al Fondo monetario, ipotesi molto più realistica; in Europa, dove ormai è un’icona per il suo celebre ‘’whatever it takes’’,
Non è dato sapere se davvero l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte, qualora i leader dell’Ue precipitassero nell’impasse, coglierà l’occasione per sparigliare le carte dei troppi candidati a guidare il vertice comunitario, calando l’asso di Francoforte, cui è difficile dire di no. Ma viste le standing ovation che i capi di governo e di governo gli hanno tributato alla sua ultima apparizione, non sarebbe una mossa sbagliata, piuttosto tardiva. E soprattutto l’ennesima dragheide è l’occasione per raccontare al grande pubblico un personaggio divenuto quasi leggendario e per di più connazionale.
Storia, curriculum e preparazione dicono che è la persona giusta dove viene nominato, perché si è preparato per tempo. Draghi ha studiato dai gesuiti, come papa Bergoglio, la forza della persuasione, il suo padre nobile è stato Federico Caffè, è vecchio quanto la pace in Europa, da banchiere americano si è trasformato in un leader che a dispetto delle apparenze, piace molto ai tedeschi. L’uomo dal profilo triste a metà tra Buster Keaton e il Signor Bonaventura, ha attraversato il deserto della crisi nell’Unione, commutando in strumento di politica la leva monetaria del Quantitative Easing, perché la politica non c’era e dando un’accezione positiva ad un’arma devastante: il bazooka. Nonostante il suo grande potere, di fatto pari a quello di Angela Merkel, ha mostrato agli austeri amici-nemici della Bundesbank di essere un leader weberiano, in grado di coniugare l’etica protestante teutonica con lo spirito del neo capitalismo della finanza. E finendo per andare d’accordo anche con Jens Weidmann, il suo antagonista e possibile successore. Cosa che non guasta affatto.
A dispetto della vulgata nazionale, Draghi ha infatti sempre negato che esista un problema Germania. Anzi, l’ha citata come modello da seguire. “Questo paese costituisce un buon esempio di come costruire un solido fondamento per la crescita”, ha ricordato non a caso in un discorso a Berlino, citando Abraham Lincoln: non puoi rendere più forte il debole indebolendo il più forte. E’ vero, i suoi detrattori gli imputano il passato in Goldman Sachs, la grande esperienza nella finanza derivata, il fatto di essere un banchiere globale, il non aver avuto pieno successo nello stimolare le economie, ma non possono di certo sostenere che il massimo scranno dell’Eurotower gli abbia dato alla testa o che un francese o un finlandese avrebbero potuto fare meglio.
Sempre calmo in british style, anche ai tempi della crisi dei debiti sovrani e della famosa lettera dell’agosto del 2011 al governo del Cavaliere quando era governatore della Banca d‘Italia, di lui restano nella memoria i sartoriali completi blu con cravatta sempre perfetta e giusto qualche momento di vera tensione. La mimica facciale congelata nei giorni post Lehman Brothers, quando il governo Berlusconi (ancora lui) annunciò la tutela dello Stato su depositi e obbligazioni, oppure lo sguardo spaventato mentre un’attivista di Occupy Wall Street gli scaraventò addosso un mucchio di carte salendo sul tavolo di una conferenza stampa. Erano i tempi in cui il finanzcapitalismo era il demonio, ora la rabbia ha indossato un gilet fosforescente.
La sua trasformazione da tecnico mediterraneo dal sorriso triste a leader europeo è stata completa, come quella di cui Nietsche diceva dei suoi concittadini: essere buoni tedeschi significa “stedeschizzarsi“. Lui si è de-italianizzato.
Molti obietteranno che deve finire la dittatura delle tecnocrazie. Che la finanza ha già fatto troppi danni. Che è ora che torni la politica, possibilmente nazionalista, come professa Matteo Salvini, il cui parere, decisivo, su una candidatura del genere, sarebbe positivo. Draghi, comunque vada a finire questa nuova tornata di nomine tra l’Europa e l’Atlantico, è da tempo un politico a tutto tondo. Non più italiano né tedesco. Semplicemente europeo e dunque apolide. Il suo background lo rende perfetto per la carica a palazzo Berlaymont, ma in quest’epoca di dittatura della mediocrità e dell’euroburocrazia non è detto appunto che accada. Nemo profeta in patria.