Cinque punti da tenere presenti, tratti da Corriere della Sera, dopo la decisione dell’Italia di chiudere i propri porti su cosa si può e cosa non si può fare in mare.
1) Salvare la vita in mare è un obbligo?
Si. Il diritto del mare e la Costituzione italiana (art. 2) si fondano sulla solidarietà quale dovere inderogabile. Il diritto internazionale (convenzione di Montego Bay e altre) impone agli Stati di obbligare i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza a chiunque venga trovato in mare in pericolo di vita, di informare le autorità competenti, di fornire ai soggetti recuperati le prime cure e di trasferirli in un luogo sicuro.
2) Non prestare soccorso ai naufraghi è reato?
Si. In Italia, l’ingiustificata omissione di soccorso ai naufraghi costituisce reato ai sensi degli articoli 1113 e 1158 del codice della navigazione. Sono obbligati a prestare soccorso tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo in mare, qualora il pericolo di vita sia imminente e grave e presupponga la necessità di un soccorso immediato. Secondo la Convenzione di Amburgo tutti gli Stati con zona costiera sono tenuti ad assicurare un servizio di ricerca e salvataggio (SAR). L’acronimo SAR corrisponde all’inglese “search and rescue” ovvero “ricerca e salvataggio”. Con questa sigla si indicano tutte le operazioni che hanno come obiettivo quello di salvare persone in difficoltà.
3) Perché le navi delle ong non sbarcano a Malta?
Tutti gli stati costieri del Mediterraneo sono tenuti, alla luce della Convenzione di Amburgo, a mantenere un servizio di SAR, e le SAR dei vari stati devono coordinarsi tra di loro. Il Mar Mediterraneo, in particolare, è stato suddiviso tra i Paesi costieri nel corso della Conferenza IMO (International Maritime Organization) di Valencia del 1997. Secondo tale ripartizione delle aree SAR, l’area di responsabilità italiana rappresenta circa un quinto dell’intero Mediterraneo, ovvero 500 mila km quadrati. Tuttavia il governo maltese, responsabile di una zona vastissima, si è avvalso sinora della cooperazione dell’Italia per il pattugliamento della propria zona di responsabilità: nella prassi il Centro di Coordinamento regionale SAR maltese non risponde alle imbarcazioni che la contattano né interviene quando interpellato dal Centro di Coordinamento regionale SAR italiana. La mancata risposta dell’autorità maltese, tuttavia, non esime la singola imbarcazione che ha avvistato il natante in panne dall’intervenire. Di fatto, a seguito della mancata risposta (o risposta negativa) della SAR maltese, la singola imbarcazione chiederà l’intervento della SAR italiana che coordinerà l’intervento. La Libia e la Tunisia, pur avendo ratificato la convenzione di Amburgo, non hanno dichiarato quale sia la loro specifica area di responsabilità SAR. L’area del Mar Libico confinante con le acque territoriali della Libia non è quindi posta sotto la responsabilità di alcuno Stato. Di fatto, l’unico soggetto che presta soccorso (anche) nelle acque confinanti con le acque territoriali libiche è l’Italia. In Italia l’MRCC di Roma ha il compito di assicurare l’organizzazione efficiente dei servizi di ricerca e salvataggio nell’ambito dell’intera regione di interesse italiano sul mare, che si estende ben oltre i confini delle acque territoriali (circa un quinto dell’intero Mediterraneo, ovvero 500 mila km quadrati). Il Comando Generale, infatti, assume le funzioni di Italian Maritime Rescue Coordination Centre (I.M.R.C.C.), e cioè di Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo, cui fa capo il complesso delle attività finalizzate alla ricerca e al salvataggio della vita umana in mare. L’I.M.R.C.C. mantiene i contatti con i centri di coordinamento del soccorso degli altri Stati per assicurare la collaborazione a livello internazionale, prevista dalla Convenzione di Amburgo.
4) Cosa si intende per luogo sicuro dove condurre i soggetti recuperati? Il luogo di sicurezza (place of safety) è da intendersi come il luogo in cui può essere garantita innanzitutto l’incolumità e l’assistenza sanitaria dei sopravvissuti. In termini pratici questo vuol dire che finito il salvataggio in mare, l’operazione SAR non è ancora conclusa: i naufraghi devono essere condotti in un luogo dove possono essere fornite le garanzie fondamentali agli stessi (non solo le garanzie relative all’assistenza sanitaria, ma anche la garanzia a non essere sottoposto a torture o a poter presentare domanda di protezione internazionale). L’individuazione di tale luogo spetta alla SAR che coordina la singola azione di salvataggio, salvo che ci si trovi nelle acque territoriali dove resta la competenza esclusiva dello Stato costiero. Non sempre il luogo sicuro è lo Stato costiero più vicino al luogo ove avvengono le operazioni di soccorso. Non sono infatti considerati “sicuri” porti di paesi dove si possa essere perseguitati per ragioni politiche, etniche o di religione, o essere esposti a minacce alla propria vita e libertà. Ad esempio, l’UNHCR ritiene che la Libia non soddisfi i criteri per essere designata come luogo sicuro allo scopo di svolgere procedure di sbarco in seguito a salvataggi in mare, alla luce della volatilità delle condizioni di sicurezza in generale e, più in particolare, nei riguardi di cittadini di paesi terzi. Queste condizioni, infatti, contemplano la detenzione in condizioni che non rispettano gli standard – e sono stati dimostrati frequenti abusi nei confronti di richiedenti asilo, rifugiati e migranti. Secondo un esposto dell’ASGI, il territorio libico non può ritenersi “luogo sicuro”, in quanto non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, né le principali Convenzioni in materia di diritti umani, e numerosi sono i rapporti internazionali che denunciano le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate nei confronti dei migranti.
5) È possibile bloccare l’accesso ai porti delle navi private che hanno effettuato il soccorso? Lo stato costiero, nell’esercizio della propria sovranità, ha il potere di negare l’accesso ai propri porti. Le convenzioni internazionali sul diritto del mare, pur non prevedendo esplicitamente l’obbligo per gli stati di far approdare nei propri porti le navi che hanno effettuato il salvataggio, impongono e si fondano sull’obbligo di solidarietà in mare, che sarebbe disatteso qualora fosse negato l’accesso al porto di una nave con persone in pericolo di vita, appena soccorse e bisognose di assistenza immediata. La chiusura dei porti comporterebbe in ogni caso la violazione di norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati, a partire dal principio di non refoulement sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Il rifiuto di accesso ai porti di imbarcazioni che abbiano effettuato il soccorso in mare può comportare la violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), qualora le persone soccorse abbiano bisogno di cure mediche urgenti, nonché di generi di prima necessità (acqua, cibo, medicinali), e tali bisogni non possano essere soddisfatti per effetto del concreto modo di operare del rifiuto stesso. Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU.