Distratti forse dallo sforzo di capire chi abbia perso davvero la partita dell’assegnazione degli organismi europei di controllo, se l’Italia, orfana dei mondiali di calcio e ora anche dell’Agenzia del farmaco (Ema) o la Germania di Angela Merkel, in difficoltà serie per la prima volta dopo dodici anni e senza una maggioranza di governo, gli osservatori non hanno fatto caso a chi è il vero vincitore del post Brexit. Eppure ne hanno parlato per mesi, riempendo decine e decine di pagine. Si chiama Emmanuel Macron. Parigi si candida infatti a diventare la vera capitale finanziaria europea dopo Londra, con buone possibilità di riuscirci per mancanza di concorrenti. Se uno si volesse fermare solo alle caselle delle organizzazioni di livello internazionale, cosa che sarebbe comunque sbagliata perché la politica è anche l’arte della diplomazia a 360 gradi, il conto è impressionante.
Alla European banking authority, ottenuta per sorteggio in finale contro Dublino, la capitale transalpina può già sommare l’Ocse, l’Organizzazione per l’economia e lo sviluppo, e l’Esma, l’Autorità comunitaria per la stabilità dei mercati finanziari, mentre a Strasburgo hanno già sede la Corte dei diritti dell’Uomo, una costola del Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa. Se si aggiunge poi che in Corte di Giustizia in Lussemburgo la lingua vigente è quella Balzac, che la borsa di Parigi un domani potrebbe concorrere a conquistare proprio la City di Londra, dopo il fallimento del suo matrimonio con quella di Francoforte, che i transalpini controllano alcune delle più importanti aziende italiane un tempo concorrenti e restano l’unica nazione dell’Ue ad essere una potenza nucleare e a muoversi in Libia come in Medio Oriente con un certo piglio, il quadro è completo. La pennellata finale la dà il nome del negoziatore per l’Unione Europea sulle modalità di uscita della Gran Bretagna, Michel Barnier.
Al pangermanesimo continentale e alla finanza made in Britain si sta quindi sostituendo un sottile ma diffuso rilancio della Grandeur, mandata forse prematuramente in soffitta dopo i disastri elettorali e una spenta presidenza dei socialisti con Francois Hollande.
Mai una capitale europea, nemmeno Berlino, negli ultimi trent’anni ha avuto una tale concentrazione di potere e una così vasta prateria culturale da attraversare e colonizzare. Forse nel tempo addietro solo Bonaparte. Economia, banche, finanza, insomma il potere del terzo millennio, saranno di casa a Parigi, con tutto ciò che ne consegue a livello di indotto e di ricadute sul Pil, ma è l’addio degli inglesi ad aver dato slancio agli eterni nemici-amici in tutti i settori, dall’arte al turismo, dal cinema allo sport.
A sconfessare chi già un pochino gioiva per la caduta di popolarità di Macron dopo la sua vittoria alle presidenziali, come se non fosse anche un po’ naturale dopo un successo al ballottaggio contrassegnato da un fortissimo astensionismo. Ma sarebbe limitante analizzare unicamente con la lente degli interessi economici le mosse di ‘’Napomacron’’, soprannome che la stampa gli ha affibbiato con la stessa velocità con cui l’ha anche ribattezzato ‘’Micron’’, a seconda degli umori e dei sondaggi del momento. Molto più utile sarebbe invece rileggere il suo discorso tenuto alla Sorbona lo scorso 24 settembre, non a caso introvabile in rete se non nella sua lingua originale. ‘’L’Europa è un’idea realizzata attraverso i secoli da pionieri, da rivoluzionari’’, disse in quella sede il presidente francese,‘’sta a noi farla rivivere, renderla più forte.’’ Diceva noi, forse intendeva ‘’me’’.
Il giovane Capo di Stato francese sta mettendo in campo un progetto di egemonia che forse dovrebbe preoccupare i suoi partner europei perché, a dispetto di quanto ha austeramente dichiarato nell’aula dell’ateneo parigino, e cioè che lavora per una nuova Europa più unita e coesa, nella finanza come nell’esercito comune e nell’accoglienza dei migranti, i risultati della sua azione, nel deserto politico di offerte alternative convincenti, sembra portare acqua solo al suo mulino. Nonostante una visione d’insieme che manca sicuramente agli altri leader europei, nonostante la scelta di brevettare il suo movimento En marche, anche in chiave comunitaria, nonostante la lungimirante proposta di riassegnare ad una formazione transnazionale alle prossime elezioni del 2019 gli scranni lasciati vuoti a Bruxelles dai parlamentari britannici, la spinta europeista di Macron, per mancanza di quello che gli americani chiamano sistema di check and balance, si sta tramutando in una overdose di potere nazionalista.
Che sia un male non è detto. Che occorra rapidamente riprendere i corsi di francese è consigliabile. Di certo è affascinante immaginare che si tratti di una sottile e tardiva vendetta di Waterloo, consumata quando la sconfitta più famosa del mondo sembrano essersela oggi imposta con la Brexit gli eredi di Wellington. Paradossi della storia.