Dalla newsletter Marat di Francesco Maselli
La rivolta dei Gilet gialli è un punto di cesura del mandato di Emmanuel Macron, per la prima volta seriamente in difficoltà dalla sua elezione, nel maggio 2017. Il presidente francese ha più volte ammesso in queste settimane di avere commesso degli errori, e di non essere riuscito a mantenere alcune promesse della sua campagna elettorale; non tanto in termini di misure concrete (ma anche, viste le concessioni a cui è stato costretto), quanto sul modo di esercitare il potere: “Non sono riuscito a riconciliare i francesi con la propria classe dirigente” ha detto in un’intervista a Tf1 il 14 novembre, a pochi giorni dalla prima grande manifestazione dei Gilet gialli.
Questo mese di contestazione del potere politico e del modello di sviluppo francese (l’abbiamo detto più volte: i Gilet gialli non si sono ribellati soltanto a Macron, la collera nasce da molto più lontano), ha avuto la conseguenza di “ripoliticizzare” il dibattito pubblico, che nel primo anno e mezzo di mandato si era sforzato di comprendere e spiegare cosa fosse il macronismo, senza veder sorgere una vera e propria dialettica tra maggioranza e opposizione. Insomma l’opinione pubblica si era rassegnata alla mancanza di alternative. Macron è riuscito in effetti a ridurre la dialettica maggioranza/opposizione all’interno del suo movimento, talmente maggioritario ed eterogeneo in Parlamento da inglobare tutto il resto, anche a causa dell’atteggiamento di apertura che nei primi mesi ha tenuto la maggioranza dei francesi nei suoi confronti: un consenso generale sull’idea che il paese andasse riformato in profondità.
Questo sondaggio dell’Istituto Ifop, condotto a un anno dall’elezione di Emmanuel Macron (quindi aprile 2018, otto mesi fa). Come vedete, il 57 per cento dei francesi pensava che il presidente abbia tenuto le promesse elettorali, un’apertura di credito che quindi si riscontra anche in chi non ha votato per Macron.
Come spiegava il sociologo Jérome Fourquet, citato la settimana scorsa (potete recuperare qui la newsletter), Macron “ha risvegliato la lotta di classe”. Ora, il presidente, se vuole salvare il suo mandato, deve riuscire a parlare e includere nel suo progetto la Francia che non ha vinto la sfida della globalizzazione, che è ai margini e che non riesce a vedere in lui un leader in grado di risolvere la propria sensazione di “declassamento”. Questo processo è molto difficile per Emmanuel Macron, che ha impostato la propria presidenza e le proprie riforme per aiutare i “premiers de cordée”, cioè chi guida un gruppo di persone che affronta la scalata di una montagna, ed è quindi legato da una corda: se il primo sceglie la strada giusta ne beneficiano automaticamente tutti. Il suo intervento di lunedì sera, che ha riunito davanti alla televisione più di 23 milioni di francesi, è un primo passo verso una politica più sociale e vicina ai “derniers de cordée”, cioè le persone in fondo alla cordata che scala la montagna. Le più importanti misure promesse sono tre:
1-L’aumento del salario minimo (Smic) di 100 euro al mese. Oggi lo Smic è pari a 1184,93 euro netti, già piuttosto elevato, e sarà aumentato ancora. Il governo in realtà assicura che il guadagno in termini di potere d’acquisto sarà ancora più elevato, perché a questa misura si aggiunge quella già prevista dell’indicizzazione dei salari all’inflazione e alla diminuzione dei contributi sociali pagati dai lavoratori dipendenti.
2-La defiscalizzazione delle ore supplementari. In Francia la settimana lavorativa legale è di 35 ore, tutte le ore lavorate in più sono considerate straordinario e pagate sensibilmente di più (il 25%, ma gli accordi tra azienda e lavoratore possono diminuire il “premio” fino a un minimo del 10%). Nella legge di bilancio approvata prima della crisi dei Gilet gialli il governo aveva già previsto di eliminare il costo dei contributi su queste ore, che adesso saranno completamente libere.
3-L’annullamento dell’aumento della Csg (contribution sociale généralisée) ai pensionati che guadagnano meno di 2.000 euro netti al mese. Forse è la promessa più simbolica di Emmanuel Macron, che aveva basato parte del suo successo politico sullo spostamento del carico fiscale da chi è attivo a chi non lo è. Per finanziare il welfare pubblico in questo modo diverso, Macron aveva aumentato i contributi dei pensionati che guadagnavano più di 1280 euro netti al mese. Una rinuncia molto costosa, circa 4,5 miliardi di euro.
Sempre un sondaggio Ifop dello scorso maggio, stavolta sulla riforma della Sncf, le ferrovie dello stato francesi. Come vedete la quasi totalità dell’elettorato non credeva che il governo avrebbe ceduto di fronte alle richieste dei ferrovieri, che hanno creato notevoli disagi per mesi a chiunque dovesse prendere un treno. Dopo la marcia indietro e le concessioni fatte ai Gilet gialli, è molto probabile che la sensazione di avere un governo in grado di andare fino in fondo a prescindere dalle proteste sia molto meno diffusa. In questo mese Macron ha perso parte della sua capacità di deterrenza nei confronti delle manifestazioni di piazza.
Le proposte del presidente hanno avuto l’effetto immediato di calmare gran parte della protesta (e infatti ieri pomeriggio le manifestazioni in tutta la Francia sono state poche e poco partecipate). Ci sono però dubbi su come si finanzieranno concretamente le misure (mercoledì l’Assemblea nazionale dovrà discuterne, e il ministro dell’Economia Bruno Le Maire ha detto alla stampa che molte decisioni, soprattutto di tagli necessari a evitare un’impennata del deficit, devono ancora essere prese).
Secondo François Bayrou, ex ministro della Giustizia e tra i principali sostenitori del presidente: “Quello che ha fatto Emmanuel Macron lunedì sera, l’ha fatto contro tutta l’alta amministrazione che aveva sempre risposto non fosse possibile promettere misure del genere. Ha preso una decisione personale, quasi solitaria”. Se questo è vero, Macron non soltanto è andato contro i suoi ministri, che avevano a turno smentito parte di queste misure nelle ore precedenti, per poi ritrovarsi a difenderle in televisione subito dopo, ma anche contro la sua amministrazione. Sarà interessante quindi vedere cosa succederà nei prossimi giorni, quando le proposte dovranno essere tradotte in emendamenti alla legge di bilancio e poi in atti legislativi.
Che ricadute ha avuto questo intenso mese di proteste, annunci e marce indietro?
Il sondaggio è stato commissionato dal Journal du Dimanche
Come vedete, il sondaggio è piuttosto indicativo: se domani si votasse alle presidenziali il partito di Emmanuel Macron farebbe meglio di un punto nella stessa configurazione del 2017, addirittura di 3,5 punti con i leader politici attuali in campo. E’ una sorpresa e un’ottima notizia per il presidente, che conferma quanto si nota da tempo nelle analisi elettorali e sulla popolarità di Macron: chi ha votato per lui ne è soddisfatto e lo rivoterebbe. Ciò non vuol dire che il dissenso non si stia organizzando: Marine Le Pen, che sembrava completamente fuorigioco dopo la disastrosa gestione della campagna elettorale del 2017 (partiva dal 29 per cento nei sondaggi, ha raccolto soltanto il 21 al primo turno, e al secondo non è riuscita a superare nemmeno il 40 per cento), pare in ottima forma. E’ l’unica leader ad avere beneficiato del movimento dei Gilet gialli pur non avendolo sostenuto ufficialmente (il Rassemblement national non era in piazza in queste settimane), perché i temi da lei incarnati sono ritornati prepotentemente al centro del dibattito pubblico.
Infine, vista la serrata trattativa tra l’Italia e Bruxelles per la manovra del nostro governo, le scelte del presidente francese hanno riaperto il dibattito sul deficit: la Francia dovrebbe aumentarlo dal 2,8% previsto finora al 3,4%, molto al di sopra della soglia minima che impongono le regole europee.
Il governo italiano ha colto l’annuncio di Macron per denunciare il diverso trattamento riservato all’Italia rispetto a quello riservato alla Francia, che pare non incorrerà in alcuna sanzione da parte dell’Unione europea. Le economie dei due paesi non sono comparabili, così come non lo sono le misure che fanno aumentare il deficit. Un po’ di numeri per capire meglio: la Francia stima di crescere dell’1,6 per cento quest’anno ed è cresciuta del 2,2 per cento nel 2017, mentre l’Italia nel 2017 è cresciuta dell’1,5 per cento e quest’anno le stime sono molto più basse, dell’1 per cento. In più, con ogni probabilità, la Commissione europea potrebbe aprire una procedura di infrazione contro l’Italia a causa del debito eccessivo, non del deficit troppo elevato. Anche in questo caso, il paragone con la Francia non regge: la Francia ha un debito del 98,5 per cento del Pil, l’Italia del 131,2 per cento.
In più, volendo considerare il deficit come parametro, quello francese è molto diverso da quello italiano. La Francia, prima delle concessioni di Macron, aveva stabilito di avere il 2,8 per cento di deficit, una cifra più elevata rispetto a quella italiana (che aveva scritto la manovra con la previsione del 2,4 per cento, poi abbassato al 2,04 per cento dopo i rilievi di Bruxelles). In Marat mi ero già occupato delle differenze tra le due manovre nelle scorse settimane, e del perché il 2,8 per cento della Francia era in realtà più basso di circa un punto. Ecco perché, anche con l’aumento generato dalle promesse fatte ai Gilet gialli, la Francia resterebbe al di sotto del tetto del 3 per cento in termini strutturali. Copio e incollo un passaggio dell’episodio, che potete recuperare per intero qui.
Le due manovre non sono comparabili, come dimostra una veloce lettura delle misure decise dal governo francese. Uno degli impegni presi da Emmanuel Macron è ridurre il deficit e il debito francese, e si può dire che grazie a una crescita economica abbastanza robusta per il 2017, e ancora positiva anche se in rallentamento nel 2018, l’obiettivo è centrato. Resta il fatto che i francesi avranno un deficit molto alto nel 2019, più alto di quello italiano. Il motivo, in realtà, è puramente contabile. Due misure già esistenti drogano le cifre presentate dal ministero dell’Economia, generando quello che è stato definito dagli economisti l’anno nero di Bercy, l’anno di transizione che aumenta artificialmente il deficit (nel tableau de synthèse questo è indicato infatti comemesures exceptionnelles).
1-Il CICE, crédit d’impôt compétitivité emploi, è una misura creata nel 2013 dal presidente François Hollande, per cercare di aumentare l’occupazione. Si tratta di un credito d’imposta di cui possono beneficiare le imprese per diminuire il costo del lavoro e quindi assumere di più. Lo sconto è forte, 7 per cento in meno sui contributi per i salari fino a 2,5 volte maggiori del salario minimo (Smic), 10 per cento per i salari fino a 1,6 volte lo Smic. Il costo totale è di circa 20 miliardi di euro. Macron, come promesso in campagna elettorale, ha trasformato la misura da credito d’imposta a riduzione strutturale dei contributi. Questo vuol dire che per il 2019, e soltanto per il 2019, lo Stato francese dovrà rimborsare le imprese che hanno diritto allo sconto sui contributi nel 2018 (nel frattempo i contributi li hanno già pagati, e quindi vantano un credito nei confronti dell’amministrazione fiscale), e allo stesso tempo vedrà diminuire le sue entrate perché nel 2019 le imprese avranno direttamente meno contributi da pagare. Questa ridefinizione vale circa lo 0,7 per cento del Pil, che quindi si aggiunge al deficit generale.
2-I francesi dall’anno prossimo adotteranno il sistema di pagamento delle tasse con ritenuta alla fonte: finora ogni contribuente doveva provvedere da sé al pagamento delle imposte, dal 2019 vedrà invece le proprie tasse già prelevate in busta paga. Questo fa sì però che l’ammontare dovuto a dicembre 2019 verrà effettivamente contabilizzato nel gennaio 2020. A lungo termine non cambia nulla, perché quella cifra resta dovuta allo Stato, ma intanto sul budget del 2019 mancano 5,9 miliardi di euro, che appesantiscono ulteriormente il bilancio francese.
Sta di fatto che dal punto di vista politico la differenza di trattamento può essere rilevata: i due paesi restano al di sopra degli obiettivi fissati dalla Commissione, e in più Emmanuel Macron ha deciso di cambiare la sua manovra in corsa, senza intavolare alcuna trattativa con Bruxelles. Le due situazioni saranno quindi anche diverse, ma è inevitabile che il nostro governo faccia notare le incongruenze e le utilizzi a suo vantaggio, se si accetta, com’è normale che sia, che la politica è anche fatta di percezione e di propaganda.
Il rischio è che Macron abbia preparato la prossima campagna elettorale di Salvini e Di Maio, che potranno presentarsi alle elezioni europee giustificando la marcia indietro vistosa sulla loro manovra con l’atteggiamento “due pesi, due misure” della Commissione nei confronti di Italia e Francia.