Una risposta al nazionalismo e al razzismo
Questo quadro vertiginoso che in poche pagine si è cercato di riassumere non deve rimanere, come speriamo sia chiaro, una litania scomposta in memoria di dolori altrui. Abbiamo attraversato le responsabilità individuali, collettive ed istituzionali di questo presente: ora dobbiamo farne qualcosa.
Al razzismo rispondiamo innanzitutto con la sua illegittimità: non è altro che la presunzione di poter accusare qualcuno di essere nato dalla parte “sbagliata” del mondo. Un mondo che noi europei e occidentali abbiamo contribuito a creare con secoli di contraddittorie e controverse azioni di dominio. Ricordiamo poi che le nazioni, come le razze, non esistono. Gli stessi italiani non sono che un’invenzione. La premessa è la necessaria differenziazione tra stato e nazione: lo stato è un’organizzazione sociale di epoca moderna che si basa sul monopolio della forza su un determinato territorio che si esercita attraverso un sistema coercitivo e burocratico (idealtipo weberiano). Serve però un’idea che faccia da collante per questa comunità sempre più grande, che non è paragonabile ad un piccolo villaggio caratterizzato da rapporti face to face tra i suoi abitanti. Nel passato questa idea era espressa da un re-divino, per cui il potere politico e quello religioso si intrecciavano per proporre un riferimento assoluto e condiviso da tutti. Esempi storici ne abbiamo a non finire, dalla Francia di Luigi XIV all’Egitto dei faraoni. Per buona parte dei secoli scorsi, dunque, al concetto di nazione corrispondeva soltanto il luogo fisico di nascita di una persona (da latino nascor), mentre si viveva tranquillamente in stati multinazionali perché il collante sociale era garantito dalla fedeltà destinata dai sudditi alla dinastia regnante per “grazia di dio”.
Solo dopo la Rivoluzione Francese (Chabod), in epoca dunque relativamente recente, si è realizzata la fusione dell’idea di comunità politica di Rousseau (che rovescia la piramide della legittimità politica, per cui la giustificazione del potere passa da Dio al popolo) con la comunità etnica di Herder (il popolo definito ha una propria soggettività nella storia). Da questo momento i nazionalismi iniziarono a creare le nazioni come strumento di competizione per la lotta egemonica sul continente europeo. Il meccanismo adottato è piuttosto semplice, si basa sullo stesso concetto di identità relazionale, per cui “il noi si fonda sul non essere l’altro”, appellandosi a origini vere o presunte. Negli anni, si sono commessi i peggiori meccanismi di rimozione storica, difatti, per dirla con Renan, «L’oblio, e dirò persino l’errore storico costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione (…). Ora l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune, ma anche nel fatto che tutti abbiano dimenticato molte altre cose. Nessun cittadino francese sa se è Burgundo, Alano, Visigoto; ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo, i massacri del XIII secolo nel Sud.» L’idea di nazione contemporanea, così come lo stato nazionale, sono cose umane e come tutte le cose umane sono destinate ad avere una fine. Intanto, però, dimenticando di approfondire le origini delle cose, ragioniamo molto pericolosamente trasformando il tradizionale in naturale, cosicché il passo verso l’immutabile è diventato molto breve.
Alla luce di questo ragionamento è una finzione quella che trasforma la nascita di un individuo in appartenente ad una nazione, poiché, al contrario di quel che sosteneva De Maistre, esistono prima di tutto gli uomini e poi i francesi, gli inglesi o tedeschi. Sono proprio gli immigrati che mettono in evidenza il feticcio originario su cui si basa la sovranità moderna di natività/nazionalità, come sottolinea Sayad: «Riflettere sull’immigrazione rinvia a interrogare lo stato, le sue fondamenta, i suoi meccanismi interni di strutturazione di funzionamento: interrogare in tal modo, mediante l’immigrazione, lo stato significa in ultima analisi “denaturalizzare” per così dire ciò che si considera “naturale” nel senso in cui si dice che qualcosa “è naturale” o “va da sé”. La riflessione sull’immigrazione conduce a “re-storicizzare” lo stato e ciò che nello stato sembra colpito da amnesia storica, cioè a ri-ricordarsi delle condizioni sociali e storiche della sua genesi (…). L’immigrazione disturba perché obbliga a smascherare lo stato, a smascherare il modo in cui pensa e si pensa, come rivela il suo modo specifico di pensare l’immigrazione.»
Già alla fine degli anni ’50 a livello accademico era chiara la critica dei surrogati del nazionalismo, come il razzismo o l’idea di “nazione come organismo vivente”. Entrambi si basano sull’idea assurda esposta da Meinecke per cui una nazione debba possedere “un intimo nocciolo naturale nato dalla consanguineità”. Nel 2017 e in Italia, sul fatto che non esistano gruppi umani col sangue “puro” converremo tutti. Se accettiamo il fattore rimanente, cioè che la nazione è solo un meccanismo ideologico di unità che caratterizza il “plebiscito quotidiano” (sempre Renan) della nostra comunità, vediamo come storicamente avvenga un’inversione delle scale di valori tradizionali e la subordinazione di questi ultimi al nazionalismo. Prendiamo la “via nazionale al socialismo”, oggi molto in voga anche nella sinistra euroscettica; se si ammette che si realizzi solo nel quadro nazionale la battaglia per il sociale difendendo i lavoratori occidentali privilegiati rispetto a centinaia di milioni di persone che vivono sotto la soglia della povertà, avremo posto il valore nazionale al di sopra di quello sociale. Allo stesso modo, se il liberale fedele alla nazione sacrifica in favore della sicurezza di essa le libertà economiche o individuali, o il cristiano vede prima uno “straniero” che un essere umano, quest’ultimi saranno nazionalisti prima che liberali o cristiani.
Finché eravamo nell’800 questo sistema di ragionamento poteva reggere, ma in un mondo globalizzato e interdipendente non possiamo più permetterci di pensare con categorie di due secoli fa. È pericoloso perché non saremo in grado né di comprendere e né di governare il nostro futuro come umanità, lasciando la porta aperta alla degenerazione dei nazionalismi. In questo senso, come europei dovremmo rivedere persino il concetto di etnia perché abbiamo appurato che è impossibile categorizzare un gruppo umano sulla base del mito statico dell’origine (Aime). L’antropologia non ha dato risposte certe sull’identificazione dei gruppi tribali, ma ha almeno spostato l’attenzione sull’essenza politica dell’appartenenza etnica. Per dirla con Cuisenier, la via d’uscita potrebbe essere il riprendere l’esempio degli antichi greci, i quali, “insegnano che l’etnicità di un popolo, ciò che gli consente di avere un’identità di popolo, non risiede né nella lingua né nel territorio né nella religione né in questa o quella peculiarità, ma nel progetto e nelle attività che conferiscono un senso alla lingua, al possesso di un territorio, alla pratica di usanze e riti religiosi”. È ciò che facciamo che determina ciò che siamo, è la scelta di essere una comunità di destino che ci permette di agire come tale.
Quella comunità di destino può essere finalmente pensata almeno a livello europeo ed è possibile determinarne dei passaggi essenziali non più rimandabili. Come scrive Sartre nella prefazione de “I dannati della terra” di Fanon: «Voi, così liberali, così umani, che spingete l’amore della cultura fino al preziosismo, fate finta di dimenticare che avete colonie e che là massacrano in vostro nome. Fanon rivela ai suoi compagni — a certuni di loro, soprattutto, che restano un po’ troppo occidentalizzati — la solidarietà dei “metropolitani” e dei loro agenti coloniali. Abbiate il coraggio di leggerlo: per questo primo motivo che vi farà vergogna e la vergogna, come ha detto Marx, è un sentimento rivoluzionario. Vedete: anch’io non posso sciogliermi dall’illusione soggettiva. Anche io vi dico: “Tutto è perduto, a meno che…” Europei, io rubo il libro d’un nemico e ne faccio un mezzo per guarire l’Europa. Approfittatene.»
Forse partendo dal coraggio di leggere la storia universale da una lente più ampia di quella europea e mettendo in discussione quella stessa lente, provando quel sentimento rivoluzionario di vergogna, potremo ricominciare a lottare per quel processo in divenire che è l’Unione Europea, costituzionalizzando finalmente valori non più contrattabili.
Come si formulano dunque questi passaggi concreti per invertire il flusso della storia che così pericolosamente ci sta riportando dentro le viscere del Secolo Breve?
(In)Conclusioni
Nessuno di noi ha la verità in tasca. Possiamo però fare alcune proposte concrete, che costruiscono un filo rosso tra l’Europa e il singolo lettore. Innanzitutto occorre un’organica politica di dimensione europea di accoglienza dei migranti con l’istituzionalizzazione di corridoi umanitari che permettano canali sicuri di arrivo; una politica europea che affronti l’instabilità dell’Africa e del Medio Oriente e che segua il criterio ispiratore del Piano Marshall, con un piano di investimento nei campi dell’economia e della sicurezza civile e sociale al fine di sostenere un progressivo miglioramento in termini di pacificazione, integrazioni regionali e sostegno allo sviluppo. L’Unione Europea potrebbe in questo modo ricoprire un ruolo decisamente diverso da quello della Cina o della Russia in Africa, avviando un’azione positiva che bilanci gli strumenti della cooperazione finanziaria con quelli per rafforzare la governance democratica anche, se necessario, attraverso un taglio del debito del Terzo mondo (utilizzato spesso come strumento di ricatto neocoloniale dagli stati).
In merito alla prima proposta, è necessario affrontare concretamente le sfide di un corretto inserimento e dell’indispensabile inclusione sociale dei migranti, con un sistema che sappia spiegare ai cittadini europei le opportunità rappresentate dal loro arrivo. Per cambiare la prospettiva criminalizzante e di allarme continuato sarebbe necessaria una revisione del Regolamento di Dublino che sia fondata su un approccio che consideri la politica migratoria e di asilo come una risposta ad una crisi strutturale e non emergenziale, che escluda meccanismi coercitivi, che introduca i principi del percorso, dell’esperienza professionale e delle aspirazioni dei richiedenti asilo, che preveda l’applicazione del contributo di solidarietà non solo nel caso di autosospensione dal sistema ma anche di mancata esecuzione delle decisioni in materia di ricollocazione.
Allo stesso tempo, è indispensabile mettere in discussione lo stesso vocabolario con cui è narrato e normato il fenomeno migratorio; le “parole di stato” (Zanfrini) che denotano il migrante legittimo da quello illegittimo (profugo/clandestino) sono costruzioni arbitrarie che descrivono e preformano le relazioni e le gerarchie all’interno della nostra società. Hanno ricadute sul livello di accettabilità sociale del migrante, sull’ammissibilità di alcuni dispositivi politici, normano il tono della convivenza interetnica, influenzano la percezione collettiva del fenomeno. La riformulazione giuridica dovrebbe essere l’ultimo passaggio di una lotta discorsiva e istituzionale sul significato profondo di queste distinzioni e sulla loro ammissibilità etica. È anche nella battaglia per la ridefinizione di questi confini discorsivi che si colloca la possibilità del cambiamento.
Sono passati più di venti anni dal celebre testo di Sayad “La doppia assenza”, con cui l’autore descriveva la sensazione paradossale del migrante di vivere in un limbo, lontano dalla sua società e mai davvero incluso in quella d’arrivo. La doppia assenza è forse ancora più evidente in un’Europa che non è in grado di colmare questo assordante vuoto sociale, individuale e collettivo, e che non sta rispondendo al bisogno di trovare una traduzione istituzionale alla complessità del fenomeno migratorio irriducibile al binomio semplificatorio accoglienza/respingimento.
L’obiettivo dovrebbe essere quindi quello di combinare un’azione di politica interna ed una di politica estera perché un’Agenzia Europea d’asilo e i programmi di resettlement non bastano.
Purtroppo al vertice del 28 agosto tenutosi a Parigi tra Paolo Gentiloni, Emmanuel Macron, Angela Merkel, Mariano Rajoy con la presenza di Idriss Déby, presidente del Ciad, Mahamadou Issoufou, presidente del Niger, il capo del governo libico, Fayez El Sarraj e dell’Alta rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri, Federica Mogherini, è stato confermato il consolidamento di un approccio esternalizzante, il cui obiettivo principale rimane quello del respingimento e del trattenimento dei migranti sul continente africano; gli unici accenni sul fronte europeo fanno riferimento ad una qualche revisione del regolamento di Dublino. Al contempo, la creazione di alcuni centri di ricollocamento in Niger e Ciad per permettere richieste di asilo in loco, riguarderà un numero esiguo di domande e inciderà solo minimamente sul fenomeno tout court; l’intento principale rimane scoraggiare la partenza dei migranti o il tentativo di ottenere una protezione internazionale.
Le risposte dunque continuano ad articolarsi solo sul fronte del contenimento del fenomeno, mentre tutto tace in merito ad un nuovo modello di cittadinanza, all’accoglienza, all’inserimento nel mondo lavorativo e sociale, alla garanzia dei diritti sia sul piano internazionale che europeo.
L’aspetto più preoccupante è che la diminuzione degli sbarchi nel mediterraneo è apprezzata e celebrata dalla comunità internazionale e dal governo italiano. Eppure basta interrogarsi sulle possibili cause per mettere in discussione la legittimità di questo “successo”: una maggiore aggressività dell’azione della Guardia costiera libica, le politiche adottate dal ministro dell’Interno Minniti, la possibile azione di una milizia a ovest di Tripoli che avrebbe iniziato a fermare le partenze dei migranti. La giornalista italiana Francesca Mannocchi ha scritto su Middle East Eye che gruppi armati libici stanno fermando le navi dei migranti in cambio di aiuti e denaro promessi dall’Italia. Se i trafficanti avevano un prezzo nel business delle partenze, potrebbero avere un ruolo altrettanto cruciale in quello dei respingimenti. Tutto questo non può essere banalizzato nell’ipocrita celebrazione del risultato “numerico”.
D’altro lato, per uscire dal pericolo reale di una «guerra tra poveri», sarebbe necessario smettere di fare una battaglia politica sullo “zero virgola” per quanto riguarda le possibilità di fare deficit sul piano nazionale. Il problema non è il dito, ma la luna: il rilancio dello sviluppo per uscire dalla crisi economica va fatto sul piano continentale, attraverso un serio cambiamento istituzionale. È in Europa che deve essere pensata la tutela del lavoratore e non solo del capitale. Per avere dei risultati concreti servirebbe però un’Europa in grado di superare i suoi dissidi interni, politicamente forte, dotata di una politica estera, economica e fiscale unica e non ostaggio di alcuni governi colti da una deriva sempre più autoritaria. Per questo possiamo solo sperare in una riforma del meccanismo istituzionale dell’area euro che crei gli strumenti necessari per far fronte a queste sfide politiche.
Cerchiamo quindi di arrivare alla conclusione di questo incompleto excursus, che riesce a rendere solo una minima parte della complessità del nostro presente, rivolgendoci direttamente al lettore che non ha un incarico istituzionale o non amministra una ONG.
In molti, alla fine di questa lettura, diranno: «tutto questo non può dipendere da noi, ma dalla mancanza di soluzioni stabili sul piano europeo e dalla miopia dei nostri leader politici.» È vero, ma ognuno è anche responsabile individualmente delle proprie scelte. Salvare la civiltà europea in declino comincia proprio da qui. Nei momenti di crisi dobbiamo essere capaci di resistere e riflettere anche singolarmente con i nostri valori più alti che rappresentano (o dovrebbero rappresentare) la libertà, la democrazia, l’unità e la solidarietà. Dobbiamo decidere che mondo lasciare alle prossime generazioni. Per dirla con un’immagine che ha dipinto Altiero Spinelli: «Nella storia della civiltà il bene comune è stato, di volta in volta, la città-stato, l’impero, la classe, la nazione. Ci troviamo alle soglie di un’epoca in cui il bene comune può finalmente essere concepito come quello dell’umanità intera. Tocca ai federalisti tradurre queste indicazioni culturali in azione.» Diamo una speranza alle persone, ai corpi intermedi di stati nazionali in crisi: eleviamo l’asticella dell’impegno sul piano continentale come primo passo per acquisire una consapevolezza globale. Solo così inizieremo a comprendere ed a governare la globalizzazione, perché al momento la sovranità è saldamente in mano a stati nazionali che Einaudi definiva già decenni fa impotenti e “polvere senza sostanza”.
Non lottiamo per un mondo utopico, ma almeno dobbiamo iniziare a batterci per il migliore dei mondi possibili.
- Diletta Alese, laureata in Sociologia presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza, specializzata nell’analisi e nello studio dei fenomeni migratori, dei processi di securitizzazione e delle discriminazioni di genere.
- Giulio Saputo, laureto in Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli studi di Firenze, già Segretario Generale della GFE, è attualmente nel consiglio di presidenza del CIME e uno dei responsabili dell’UD del MFE.
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