Il caso delle ONG
Un simile appiattimento non è estraneo al dibattito pubblico. L’estremismo di destra della nave C-Star, una nave carica di fascisti che vuole “impedire” gli sbarchi attraverso la sua operazione Defend Europe, viene contrapposta sullo stesso piano all’estremismo definito di sinistra della ONG Jugend Rettet. Il risultato immediato è la politicizzazione del diritto a sopravvivere, rendendolo una mera “scelta ideologica” e non un valore consolidato e condiviso.
In ogni caso, le prime risposte della procura sono state chiare, l’articolo 54 del Codice Penale recita: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. Il pericolo di morte per annegamento o tortura può essere considerato proporzionale al reato? Il reato di cui si parla è peraltro quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, già presente nella legge Turco-Napolitano del 1998 e ampiamente confermato nel 2002 in seguito alle modifiche apportate dalla legge Bossi-Fini. Il reato di immigrazione clandestina inoltre, e non solo il favoreggiamento, è materia di discussione tra gli stessi giuristi. Non esistendo un modo “legale” per entrare in Europa e fare richiesta d’asilo, chiunque può essere soggetto all’arbitrarietà di questa norma. La materia principale dell’inchiesta è quindi la definizione di quello “stato di necessità”, problema finora mai sollevato per le ONG. Questo vuol dire che, in fin dei conti, ad essere messa sotto accusa è la possibilità o meno di salvare vite umane, o meglio, entro “quali condizioni” è possibile intervenire per salvarle.
Se da un punto di vista giuridico ideale la distinzione tra profugo, migrante economico e irregolare sembra calzare, dall’altro la realtà è decisamente più complessa. In un rocambolesco ribaltamento, la giustizia può diventare uno strumento di dissuasione, proprio appellandosi a quella differenziazione, verso chi sta cercando di salvare delle vite. Il caso del candidato premio Nobel Don Mussie Zerai è estremamente esplicativo; come riporta lui stesso in merito alla vicenda: «Io non faccio favoreggiamento, io aiuto chi scappa dalle guerre, dalla violenza e dalle torture e lo faccio da vent’anni. Questo è il mio lavoro di uomo e di sacerdote. Che reato è?» «Sono sacerdote e rifugiato, oggetto di calunnie e di una campagna denigratoria. Ero sicuro che prima o poi sarei finito sotto indagine. È paradossale che la solidarietà venga criminalizzata. Italia ed Europa spingono per il blocco delle partenze senza preoccuparsi di quello che succede dopo, migliaia di persone che cercano protezione vengono costrette a stare in centri di detenzione libici dove avvengono abusi quotidiani di cui Italia ed Europa sono complici.»
In più, come già accennato nelle nostre introduzioni, gli scafisti (e i migranti) sono di fatto gli unici ad essere arrestati e pubblicamente accusati. I trafficanti, che controllano realmente la tratta e le sue modalità ricavandone i maggiori guadagni sulla pelle di migliaia di persone, rimangono indisturbati nell’organizzazione di questa spirale di violenza. Anche laddove la procura di Catania sia riuscita ad identificare alcuni dei responsabili, in Libia non esistono istituzioni con cui collaborare e nel caso dell’Egitto il governo non ha concesso l’estradizione dei soggetti individuati. Arrivare a colpire i trafficanti significherebbe finalmente riabilitare anche l’immaginario dei migranti, oggetto dei loro soprusi. Gli scafisti rappresentano solo l’ultimo anello della catena; sono dei capri espiatori, sia delle responsabilità dell’Occidente sulle migrazioni, sia dei veri carnefici che si trovano sul continente africano e che non possono essere arrestati. Questo conferma ancora una volta la necessità impellente di creare dei canali sicuri di transito; in alternativa, la tratta sarà un passaggio obbligato per altre migliaia di persone.
La giustizia nel quadro internazionale ha quindi dei fortissimi limiti e non può essere l’unica lente in grado di analizzare la realtà o di definire il confine preciso tra “buoni” e “cattivi”, anche perché una rappresentazione tanto manichea risulterebbe immediatamente falsa.
Il modo in cui si sono aperte le inchieste sulle ONG è altrettanto nebuloso. La stessa guardia costiera italiana è stata più volte coinvolta in salvataggi di imbarcazioni affiancate da scafisti e dalla stessa guardia costiera libica (che non ha particolari segni di riconoscimento). Non si comprende dunque perché, proprio ora, debba essere impedito alle ONG di fare lo stesso.
Arriviamo dunque ai protagonisti di questo attivismo persecutorio.
Génération Identitaire, movimento da cui nasce Defend Europe, si racconta attraverso un attivista presente sulla nave, Simon Wald, e il suo leader Martin Sellner di cui è possibile trovare video e dichiarazioni tra i social network. Sembra di fare un salto indietro di venti anni e tornare alle teorie, ormai largamente superate perlomeno a livello accademico, di Huntington relative allo scontro di civiltà, condite con accenti di supremazia europea di matrice neonazista o neofascista. Le differenti etnie vengono definite dall’attivista, con una metafora che avrà fatto rabbrividire generazioni di scienziati sociali, come bevande che se assunte singolarmente hanno un buon sapore e quando miscelate diventano imbevibili. Infine il volo pindarico: tutto questo dovrebbe servire a salvare delle vite. Certo, perché quando avremo innalzato questo muro identitario e impedito definitivamente ai migranti di entrare in Europa, avremo salvato delle vite, che intanto verranno torturate, stuprate, gettate nel deserto, perseguitate e moriranno di fame e di stenti, se saranno così fortunate da arrivare vive fino a quel momento.
L’aspetto più inquietante però non è la presenza di un gruppo tanto estremo, realtà a cui siamo oramai brutalmente abituati, ma la possibilità che esista un collegamento tra gli esponenti di Generazione identitaria e il gruppo di contractor che ha denunciato le anomalie della Iuventa, la nave della Jugend Rettet. In questo senso l’istituzionalizzazione della criminalizzazione della solidarietà umanitaria avrebbe raggiunto un livello più intimo di infiltrazione. Fino a questo momento è stato possibile individuare nei processi di securitizzazione e tecnicizzazione delle operazioni di agenzie come Frontex (Bigo) un consolidamento di pratiche criminalizzanti, ora però l’attenzione si sposta sulle istituzioni stesse che stanno normalizzando la pratica accusatoria contro le ONG.
Il protocollo proposto dal governo italiano, che pone delle limitazioni all’azione delle ONG, sta producendo di fatto una categorizzazione tra le organizzazioni “virtuose” e “criminali”. Sembrerebbe una chiara strategia elettorale, che mette d’accordo elettori di centro-destra e centro-sinistra. Nel mezzo della disputa però troviamo ONG come Medici Senza Frontiere, un attore che, insieme ad Amnesty, Emergency, ActionAid e Oxfam, sta mandando in cortocircuito il tentativo di delegittimazione; a parlare sono anni di operato che non possono essere demoliti dalla strategia del “pugno duro”.
Un salto negli Anni Trenta
Non è la prima volta che assistiamo a questo stato di negazione dei diritti umani. Proprio la comparsa di forti masse di immigrati “apolidi” ci dovrebbe ricordare il grande classico di Hannah Arendt su “Le origini del totalitarismo”. La filosofa nel testo ci dice che “il primo grave danno derivante alla compagine dello stato nazionale dall’arrivo di centinaia di migliaia di apolidi fu il venir meno del diritto d’asilo, l’unico diritto che avesse sempre campeggiato come simbolo dei diritti umani nella sfera delle relazioni internazionali”. Se vi guardate intorno, ormai non è più ritenuta accettabile nel quotidiano la nozione di “diritti umani”, ma è giustificata solo la supremazia di un diritto nazionale “dei francesi”, “degli italiani” o “degli europei”. In quanto “fuorilegge”, allora, proprio come gli apolidi degli anni ’30, gli immigrati possono essere internati in campi profughi perché sono espulsi dal consorzio umano. Non sono persone neanche nel gergo mediatico o politico, ma spesso solo dei “clandestini”. Questa segregazione di un gruppo umano la cui unica colpa è quella di esistere è stata il primo passo, nel secolo scorso, di un processo che ha condotto gli individui ritenuti “superflui” verso i campi di sterminio nazifascisti nella sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica: «Anche i nazisti (…) prima di azionare le camere a gas, li hanno offerti al mondo constatando con soddisfazione che nessuno li voleva. In altre parole, è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il diritto alla vita.»
Con la disumanizzazione dei morti in mare, “l’immigrato” non è più una persona. In questo, i media e una politica becera hanno avuto un ruolo determinante nell’indirizzare il sentire dei cittadini per la costruzione di un nuovo nemico che sta fuori dalle categorie dello “stato nazionale”.
Le analogie purtroppo non sono finite. Il tentativo del governo italiano di trovare accordi con la Libia, sulla base di quelli già attivi con la Turchia, per respingere o far permanere i migranti in uno stato che non ha mai rispettato la Convenzione di Ginevra, né con Gheddafi, né tantomeno con Fayez al-Sarraj, è deplorevole. In terra libica i diritti umani vengono sistematicamente calpestati e da anni si parla di veri e propri campi di internamento, drammaticamente paragonabili ai campi di concentramento di hitleriana memoria. L’UNHCR può entrare in 13 dei 30 centri di detenzione sotto il controllo di Tripoli e le condizioni sono terribili: assenza di servizi sanitari, totale mancanza di assistenza medica e condizioni di sicurezza praticamente inesistenti, dove risiedono indiscriminatamente donne, uomini e bambini. I migranti ricondotti dalla guardia costiera libica sul territorio africano vengono automaticamente detenuti in queste prigioni. I centri di accoglienza di cui parla il governo italiano non esistono e non esisteranno nel prossimo futuro. Altri centri rimangono in mano alle milizie e ai trafficanti. È il caso, ad esempio, del lager di Sabha, una fortezza nel deserto a sud est della Libia, dove vengono tenuti prigionieri centinaia di migranti provenienti dal centro Africa, Costa d’Avorio – Burkina Faso – Niger – Guinea Bissau, portati lì da trafficanti sotto le vesti di facilitatori di viaggio o rapiti nel deserto. Una volta arrivati vengono torturati, seviziati, stuprati. L’unica condizione di uscita è il pagamento di una quota di liberazione. Chi prova a fuggire, viene ucciso all’istante o lasciato agonizzare in fin di vita.
Una guerra tra poveri
Intanto in Europa, la mancanza di sicurezza civile e sociale sta diffondendo una paura insensata tra i cittadini che fin troppo facilmente si sta trasformando in odio. Il migrante è diventato il bersaglio, suo malgrado, di tensioni interne alla società già fortemente radicate. Eppure la battaglia per i diritti dei migranti dovrebbe essere una battaglia per i diritti di tutti, perché va ad intrecciarsi con la questione dell’uguaglianza e della libertà (Ciniero). In assenza di grandi narrazioni, ci ritroviamo in uno stato di guerra di tutti contro tutti. L’odio e il sadismo verso i migranti diventano strumento di potere nelle mani di quelli che già si trovano in uno stato di deprivazione o che provano “banale” piacere nel farlo. La creazione di qualcuno più in basso di noi, che vale meno di noi, ci innalza di uno scalino: non siamo più ultimi e quindi ci sentiamo più forti.
La guerra tra poveri sembra essere iniziata: la profezia si è auto-avverata. Nella definizione di Merton: «una supposizione o profezia che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità.» La creazione dell’illusoria competizione tra migranti e autoctoni ha generato le condizioni di una guerra effettivamente in atto. Ma su quali presupposti?
Basta banalmente confrontare le cifre del costo per l’accoglienza dei rifugiati (69 miliardi di Euro – anche se nello stesso periodo i profughi faranno crescere il Pil di 126,6 miliardi secondo l’economista Legrain) con il costo annuo dell’evasione fiscale nell’UE (mille miliardi di Euro) per comprendere come l’opinione pubblica e la politica si stiano violentemente e pericolosamente mobilitando contro un nemico immaginario; eppure è questa la strada strumentalmente e elettoralmente più conveniente. Chi soffre delle condizioni miserevoli dell’incertezza sociale sta guardando dalla parte sbagliata, sta scagliando tutta la sua frustrazione su un bersaglio illusorio che è stato mediaticamente e con la prossima campagna elettorale lo sarà istituzionalmente, ben costruito, mentre intanto saranno silenziate le battaglie cruciali del nostro tempo: per i diritti, l’uguaglianza, la sicurezza sociale.
Stiamo vagliando il gramo bilancio di vent’anni di crisi, in cui la globalizzazione è rimasta ingovernata ed è stata caratterizzata dal predominio di politiche liberiste prive di regole. La crisi economica ha prodotto disuguaglianze sia orizzontali che verticali approfondendo disparità già presenti nella società continentale e globale: le disuguaglianze orizzontali fanno riferimento al processo redistributivo della ricchezza a scapito del lavoro, del ceto medio e dei giovani mentre quelle verticali denotano l’acuirsi delle distanze economiche tra gli Stati e i loro popoli, per cui le economie più forti hanno prodotto un ulteriore impoverimento all’interno dell’UE.
Non possiamo più permetterci il lusso di disinteressarci, per dirla con le parole di Hobsbawm: «Eravamo sul Titanic, e tutti sapevano che avrebbe urtato contro l’iceberg. Ma nessuno sapeva quel che allora sarebbe successo. Chi avrebbe fornito una nuova nave? Era impossibile rimanere al di fuori della politica.»
(continua)
- Diletta Alese, laureata in Sociologia presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza, specializzata nell’analisi e nello studio dei fenomeni migratori, dei processi di securitizzazione e delle discriminazioni di genere.
- Giulio Saputo, laureto in Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli studi di Firenze, già Segretario Generale della GFE, è attualmente nel consiglio di presidenza del CIME e uno dei responsabili dell’UD del MFE.
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