Immigrazione: decostruzione di una morte annunciata
Sono usciti il 6 luglio scorso i dati della Commissione, voluta dalla Presidenza della Camera dei Deputati, intitolata alla Parlamentare inglese Jo Cox “sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio”. La Commissione ha previsto il lavoro di una rappresentanza di tutti i principali partiti e numerose associazioni della società civile, oltre alcuni tecnici, come il defunto professore Tullio De Mauro.
Nonostante le percentuali sconvolgenti che emergono dai lavori, come ci si poteva aspettare, i risultati non hanno fatto notizia. I messaggi più seguiti quest’estate sono stati gli annunci di Salvini di “affondare” le imbarcazioni delle ONG, i proclami di taluni sindaci del PD di “sovra-tassare” chi ospita migranti o i numerosi attacchi a tutte le associazioni non governative che non firmeranno il codice di condotta italiano per le operazioni di soccorso in mare.
Parliamoci chiaro, dietro una forma di «realismo politico» nella dialettica pubblica, mutuata dai social network, stiamo ammettendo sempre più spesso una certa preferenza verso una piena violazione dei diritti umani rispetto ai costi dell’accoglienza indipendentemente dal loro peso reale. Se fate un rapido scorrimento online dei commenti ad un qualsiasi articolo riguardo questo argomento, il capro espiatorio individuato per ogni problematica è sempre e solo uno nell’immaginario popolare viziata da un pesante analfabetismo funzionale e da una certa informazione deviata: l’immigrato. Il consolidamento di un approccio emergenziale e securitario ha contribuito fortemente a “performare” il senso comune della fittizia contrapposizione tra migrante e autoctono (Ciniero), con la rappresentazione del primo come una non-persona (Dal Lago), a cui non spetta protezione, dignità o banalmente diritto di sopravvivere. Inoltre l’attenzione mediatica e politica è focalizzata perlopiù sugli scafisti, considerati come la primissima causa delle migrazioni, provocando una totale deresponsabilizzazione sulle reali e profonde cause del fenomeno (Dal Lago) e quindi rendendo non necessaria qualsiasi analisi di lungo periodo nell’opinione pubblica.
Parallelamente, il ruolo del confine come luogo di contrattazione politica, economica, religiosa, culturale è diventato ancora più evidente. Questo dispositivo, così interpretato, garantisce migliaia di braccia a bassissimo costo prive di diritti (Mezzadra, Neilson) poiché tutto quello che dagli stati è rigettato come ingestibile o incomprensibile, finisce con grande facilità nelle trame sommerse della criminalità organizzata: prostituzione minorile e non, caporalato e tratta ne sono le più evidenti espressioni.
Quello che è in atto è, a tutti gli effetti, un tentativo di criminalizzare e ostracizzare la base della solidarietà umanitaria. Sta diventando “normale” dire che la conseguenza accettabile per determinate politiche è la morte, la tortura, la violenza su un insieme circoscritto di persone. La cosa ancora più inquietante, che crea dei parallelismi con un recente passato, è che ormai stiamo passando dalla propaganda dei media e dei social alle prese di posizione istituzionali.
Ma come siamo arrivati a tutto questo e quali sono stati i passaggi che hanno reso legittima la criminalizzazione dell’umanitarismo? È possibile individuare diversi livelli di responsabilità ed è necessario, tentare di decostruirli.
Crisi di civiltà, memoria e democrazia
Non ce ne stiamo accorgendo, ma abbiamo davanti agli occhi ogni giorno la morte della civiltà europea. Diciamo questo perché evidentemente né l’Europa e né gli europei rispettano più l’immagine e la narrazione che si sono fatti di sé. Stiamo diventando qualcosa di diverso. La costruzione e l’idea d’Europa rappresentavano la reazione alla degenerazione dei nazionalismi, «l’unità nella diversità» di un continente come esempio e promessa di pace per il mondo. Essere antifascisti e antirazzisti non era, e non può essere oggi, una questione di destra o di sinistra. Allora cosa ci è successo?
Stiamo costruendo una “nuova” Europa sui cadaveri di migliaia di morti ai nostri confini, ribaltando l’inventario ideologico che la Resistenza aveva posto a fondamento del processo di integrazione, e stiamo perdendo la possibilità di avverare quello che secoli di storia e due guerre mondiali ci avevano insegnato: la difesa dei diritti umani, la tutela dell’individuo, l’istituzionalizzazione dei conflitti e la responsabilità delle scelte politiche attraverso la democrazia.
Parafrasando Toynbee, possiamo dire che la nostra civiltà è in crisi perché non riesce a rispondere alle esigenze di un «proletariato interno» e del «proletariato esterno» generate e poste in moto anche dai meccanismi di una globalizzazione senza governo. Difatti, se prendiamo come esempi la stessa crisi economica o l’incapacità di governare i flussi migratori, scopriamo immediatamente quanto siano entrambe delle questioni strettamente collegate che vanno ben oltre i confini dell’Europa o di un singolo stato membro.
Toynbee, superando la classica definizione marxista, aggiungeva che “impoverimento spirituale” e “impoverimento materiale” sarebbero i fattori costitutivi del proletariato: «il vero marchio del proletario non è la povertà né la nascita umile ma la convinzione – il risentimento che questa convinzione ispira – di essere diseredato dal suo posto ancestrale nella società.» Con la crisi economica, la forbice sociale tra ricchi e poveri si è ampliata sempre di più, 1/4 della popolazione europea vive a rischio povertà o esclusione sociale (quasi 120 milioni di persone per Eurostat). Intanto, migliaia di persone continuano a morire per tentare di raggiungere la nostra parte di mondo, perché è qui che esiste anche solo una piccola possibilità di trovare quel “posto ancestrale”. Oltre a questa doppia disparità economica europea ed extra-europea, dovremmo riflettere sugli scarsi riferimenti ideali esistenti in un mondo come il nostro privo ormai di grandi narrazioni e poggiato su un presentismo portato avanti all’ossessione. Non ci soffermeremo qui sulla crisi delle ideologie (Albertini) o sul deserto post-ideologico (Zizek) in cui siamo costretti a vivere, ma possiamo comprendere agilmente come questo terreno di povertà spirituale ed economica sia fertile per gli estremismi di ogni colore o religione. Continuare ad ignorare e a legittimare l’esistenza di disparità di ricchezza tanto impressionanti sta portando alla formulazione di due mondi paralleli: uno edulcorato, in cui la vita è legittima, e uno immondo, dove non lo è (anche perché non mediatizzato). Da un lato le città e dall’altro le periferie multietniche e “degradate”; da un lato l’Europa civile e dall’altro un mondo di fame e violenza.
A questa crisi «economica e spirituale», aggiungiamo un problema di memoria istituzionale.
Non siamo immuni ai germi del ‘900, eppure lo abbiamo dimenticato in nome di un appiattimento valoriale del passato visto solo come un’epoca di “totalitarismi” contrapposti, di violenze da condannare a prescindere, della mera idealizzazione delle vittime perché gli eroi ci sono sembrati quasi subito troppo scomodi da strumentalizzare dopo l’appropriazione dell’antifascismo da parte del Partito Comunista.
Oggi, per larga parte dei nostri concittadini, non esiste alcuna differenza evidente nel guardare alla storia di un partigiano o di un fascista. Abbiamo talmente alimentato, celebrazione dopo celebrazione, questa retorica «dell’identica condanna degli estremismi passati» sul piano istituzionale, che ormai è comune sentire per strada persone che si definiscono fasciste o che fanno della più becera retorica del “quando c’era lui”. Di chi è la colpa? Per decenni gli stati nazione europei, per ridarsi legittimità, hanno riscritto la storia guardando al secolo “di ferro e fuoco” con una modalità sostanzialmente «retrospettiva», dando un giudizio sopraelevato di condanna unanime e di rigetto su tutto un periodo «che non ci appartiene» (ovviamente si esclude le strumentalizzazioni di alcune parti politiche). Questa ricostruzione rimuove il fatto che quel passato, comunque, ci rappresenta e che le istituzioni liberali, con buona parte dei valori moderati che immaginiamo come eterni, in Europa stavano morendo. Ci sono momenti nella storia in cui il grigio non è un’opzione tra bianco e nero, si deve scegliere. Gli europei che avevano scelto di lottare non erano certo solo comunisti. Erano anche monarchici, liberali, democratici, cristiani, atei, socialisti: erano partigiani e questa scelta costava loro molto più cara della via fascista.
D’altro canto, l’incapacità degli stati nazionali di risolvere i problemi di fondo della politica interna e della politica internazionale, di garantire cioè l’espansione economica e la sicurezza (civile e sociale) dei propri cittadini, ha riaperto gli interrogativi che portarono a quella scelta drammatica.
L’Europa, infatti, non si è ancora davvero unita e rimane tutt’ora in balìa delle degenerazioni politiche che già una volta la portarono alla dittatura. Da quando la Costituzione italiana è entrata in vigore, crediamo di aver messo al sicuro il nostro sistema democratico. Dobbiamo comprendere invece che esso non rappresenta un valore assoluto, ma si tratta di un sistema imperfetto se preso a sé stante: questo avevano compreso le forze antifasciste, cercando di fondare un muro contro la guerra sistemica tra gli stati europei su istituzioni sovranazionali, cioè nell’unico modo possibile di garantire la pace e, a posteriori, anche il governo della globalizzazione.
Stiamo tristemente cadendo in una disaffezione sempre più accentuata verso la politica e in una crisi di fiducia nei riguardi di tutte le istituzioni di rappresentanza. Ciò avviene perché il nostro sistema politico organizzato su base nazionale non è in grado di risolvere i problemi diventati ormai pienamente internazionali: non ne ha gli strumenti. In questo contesto, i veri progressisti sono coloro che si inseriscono nella lotta per completare la Resistenza, dunque per l’elevazione della democrazia sul piano continentale riempiendola così di un nuovo significato.
Purtroppo invece, dalla Spagna alla Germania, passando per l’Italia, stiamo deliberatamente decidendo di mettere tutto su un piano di parità, nella stessa “palude” dove i caduti del passato hanno il medesimo peso e lo stesso colore (Bolis) per salvaguardare una retorica nazionale morente. Se prendete anche il più elementare manuale di antropologia, scoprirete però che Totò nella sua poesia ‘A livella ha sempre avuto torto. Non esistono morti uguali, anche nella morte gli esseri umani sono diversi perché quello rappresenta il punto supremo con cui una cultura definisce il suo rapporto con l’assoluto e con la storia. Sebbene il nostro corpo si spenga, continua ad avere una dimensione sociale. Nel momento in cui tutti i morti vengono resi artificialmente uguali, appiattiti nella celebrazione di un passato volutamente rimosso, si cancella la loro memoria storica reale e si lascia spazio alla legittimazione nel presente delle posizioni politiche più assurde. Aver accettato questa identità ha significato il crollo della legittimità politica di un sistema istituzionale e di un insieme di valori usciti vincitori da una guerra solo grazie al sacrificio di migliaia di persone che hanno scelto; e lo hanno fatto in un momento in cui non scegliere significava essere conniventi con la violenza, il razzismo e la dittatura.
Come scrive Adriano Favole, una società simile a quella di Orwell in 1984 che cancelli «ogni traccia di corporeità e di memoria dei defunti al momento della loro morte, rinunciando a includere nella propria forma di umanità il mondo degli antenati e il mondo dei discendenti, potrebbe anche essere perfettamente razionale, ma apparirebbe senza dubbio profondamente disumana.» Su questa base possiamo avanzare un’ultima riflessione riguardo la memoria e la morte nella nostra società che ben si collega ad un altro meccanismo di rimozione. I migranti annegati sulle nostre coste, così come non esistono adesso, non esistevano in quanto uomini prima di annegare. Abbiamo aggiunto un elemento ulteriore a quella zona grigia del nostro appiattimento valoriale: tutti i morti sono uguali, ma alcuni morti, semplicemente, non esistono. In questo modo ci siamo deresponsabilizzati e al contempo ci siamo macchiati della più sanguinosa delle responsabilità.
Dobbiamo chiedere agli europei di tornare a fare le scelte coraggiose del passato, spesso contro un nucleo di persone che influenzano le masse irresponsabilmente o inconsciamente alla violenza e all’odio. Sull’Europa, sui migranti e sulla discriminazione dobbiamo superare la tentazione della “casa in collina” del protagonista del romanzo di Pavese. È su questi punti che si deciderà il futuro della nostra civiltà e della via che vorremo prendere come europei. Una democrazia, senza il potere di incidere sulla società e che non ha memoria è per sua natura fragile, soprattutto in un continente che ha già conosciuto il terrore del fascismo e la crisi del sistema democratico.
Ci troviamo come quell’indiano sui generis in “Coda di lupo” di De André che riflette, perse le coordinate culturali, ripetendo a sé stesso «con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria.» Abbiamo perso la bussola, ci sentiamo soli in un mondo globalizzato e guardiamo al ritorno dei nazionalismi con l’impotenza di un’identità europea debole. Non sembra più esserci il tempo per ricordare da cosa ci sia stata una “Liberazione” e contro chi si sia combattuto.
È evidente che la cultura e l’identità stesse sono dimensioni di un problema politico (Levi) e non possono essere comprese se analizzate solo sul fronte della responsabilità individuale: ci troviamo in una società globalizzata con un’economia interdipendente in cui la possibilità dell’individuo di scegliere, di valere qualcosa, è limitata dalla totale assenza di controllo democratico sui mercati o sulle grandi questioni internazionali. In questo senso i cittadini hanno perso progressivamente gli strumenti, prima inquadrati nelle democrazie nazionali e oggi senza corrispettivi, per intervenire sul loro presente e futuro oramai attraversato e condizionato da fenomeni di portata continentale e globale. È necessario inquadrare il deterioramento della partecipazione e dei suoi contenuti nella più grande crisi delle democrazie nazionali, che non forniscono più i mezzi per assicurare una società che sappia, possa e debba scegliere.
In questo senso l’Europa ricopre un ruolo cruciale. Per i numerosi riformatori di destra e di sinistra bloccati nell’ordine dell’esistente, l’Unione europea è passata rapidamente da capro espiatorio a promessa di redenzione contro il ritorno dei sovranismi. Il problema è che se le proposte di avanzamento istituzionale non vengono portate avanti e non si dà l’opportunità di funzionare realmente all’Unione (ben oltre le soluzioni emergenziali e l’intergovernativismo) non possiamo aspettarci grandi risultati. Così facendo stiamo finendo per screditare le istituzioni sovranazionali e per lasciare ogni afflato di trasformazione arginato nel mondo dell’irrealizzabile o dell’utopia in nome di un fantomatico realismo politico.
Consideriamo l’ultimo libro di Andrew Spannaus, il famoso analista che ha previsto l’elezione di Trump. La proposta contenuta in «La rivolta degli elettori: il ritorno dello stato e il futuro dell’Europa» è realmente angosciante perché va esattamente nella direzione del nazionalismo competitivo, senza pensare neanche un istante alle conseguenze di un mondo così articolato. Il problema invece è che la politica, come la democrazia, hanno perso significato sul piano nazionale perché recluse dove non hanno più nessun potere di agire. Che interesse può avere il cittadino a partecipare o a sentirsi rappresentato in un sistema che non funziona, continuamente screditato da poteri che si muovono sul piano internazionale (multinazionali, organizzazioni criminali, eccetera)?
Dopo la svolta autoritaria in Ungheria e il tentato colpo di mano in Polonia al momento rimandato in extremis, dovremmo aver capito che la democrazia non può essere considerata solo un insieme di norme statiche e assolute ma un processo e un prodotto storico (Kelsen) in continuo divenire. In Italia in pochi guardano a cosa succede oltralpe e nessuno si sta chiedendo che genere di non-democrazia stanno producendo questi tempi: una società in crisi bloccata in un sistema istituzionale sovranazionale che non funziona. Dovrebbe finire il tempo dei partiti che inseguono l’elettorato sparando al ribasso, svendendo i valori europei e democratici perché costano troppo in punti percentuale. In un mondo in cui siamo bombardati dalle informazioni dobbiamo abituarci a cercare la verità, ad inseguirla anche se non è necessariamente la via più facile, elevandola dalla pozzanghera in cui l’abbiamo reclusa con un sistema di dis-educazione tramite media imbarazzanti, un linguaggio politico degradante e un sistema scolastico in crisi.
Spesso confondiamo la fine delle ideologie e il rifiuto della politica con una forma di saggezza senza tempo (Traverso), ma il presente ci chiede di schierarci e di prendere posizione per cercare di uscire da questa impasse democratica, istituzionale e identitaria. È finita l’ora della palude per chi ha un minimo di senso della responsabilità. Per dirla con le categorie di Braudel, abbiamo il dovere di individuare almeno qualche «ciclo» delle grandi tendenze di “longue durée” sociali, economiche e demografiche con cui si muove la storia.
Per quanto riguarda la nostra società, basti prendere alcuni dati espressi dalla Commissione Jo Cox: un italiano su quattro è convinto che l’omosessualità sia una malattia, a migliaia scendono in piazza contro i vaccini, mentre non si contano più gli episodi di razzismo o di rivalutazione del fascismo. Elevando i social a strumento politico, si è instaurato un sistema di giustificazione incondizionata delle opinioni. Tutto viene automaticamente concesso in considerazione della mera libertà di opinione e di scelta. Dimenticando la lezione di Popper, la conseguenza più tangibile è un appiattimento delle opinioni su uno stesso piano di legittimità; qualsiasi filtro morale, politico e intellettuale viene annullato e quindi tutto diventa ugualmente vero, giusto o ammissibile.
(continua)
- Diletta Alese, laureata in Sociologia presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza, specializzata nell’analisi e nello studio dei fenomeni migratori, dei processi di securitizzazione e delle discriminazioni di genere.
- Giulio Saputo, laureto in Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli studi di Firenze, già Segretario Generale della GFE, è attualmente nel consiglio di presidenza del CIME e uno dei responsabili dell’UD del MFE.
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