Un grande divorzio? “E’ finito il tempo in cui l’Europa dipendeva da altri, e l’ho realizzato anche negli ultimi giorni. E’ il momento per noi europei di prendere in mano il nostro destino”. Queste sono all’incirca le parole pronunciate dalla cancelliera Angela Merkel il 28 maggio scorso durante un incontro della CDU in Baviera. Parole simili a quelle del nuovo presidente francese Emmanuel Macron, il quale ha parlato di “comune destino, ormai inestricabile, tra la Francia e l’Europa”. Curiosamente, ma non troppo, questo tipo di affermazioni ha lasciato scettici molti, moltissimi europei e diverse forze politiche. La ragione va probabilmente cercata in due fattori, largamente sottovalutati quando si parla del futuro dell’ Unione Europa e delle sue istituzioni. Il primo è la diffidenza che accompagna ancora oggi le relazioni tra Stati e popoli del continente. Il pregiudizio sui popoli del sud, pigri e dissipatori, sulla Germania, naturalmente portata alla sopraffazione e al dominio, e sulla Francia, egoista e autoreferenziale, sono purtroppo oggi più vivi che mai. Questa diffidenza tra popoli europei è forse la debolezza principale del processo di integrazione e in circa 70 anni nessun governo o istituzione ha affrontato seriamente il problema. Tutto quello che si è fatto è stato favorire gli scambi intra-europei e la mobilità, sperando che la società civile provvedesse da sola, quasi con una “mano invisibile” sociologica, a superare un forma mentis radicata negli ultimi due secoli. I risultati sono stati scarsi e lo possiamo vedere non solo tra i cittadini, ma anche nell’azione (e nelle dichiarazioni) di chi ha ruoli di responsabilità pubblica. Il secondo fattore che porta l’Europa a dubitare di sé stessa va ricercato ancora nel rapporto di dipendenza, soprattutto psicologica, che lega a doppio filo i nostri Stati a nazioni extra europee dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi. Il rapporto tra l’Europa e i suoi due protettori storici, Russia e Stati Uniti, non si è dissolto con la fine della guerra fredda e in parte continua ancora oggi. Le nazioni europee sono state per settant’anni dipendenti, economicamente e soprattutto militarmente, dai due giganti che sorgevano ad est e ad ovest. Un rapporto di dipendenza che è durato per tutta la guerra fredda tra l’Europa occidentale e gli Usa e l’Europa orientale e l’URSS. Nelle menti degli europei per due generazioni c’è sempre stata l’idea che qualsiasi cosa fosse accaduta, dovesse trattarsi di una guerra o di una crisi economica, sarebbe venuto qualcuno a togliere le castagne dal fuoco al vecchio continente. In fondo perché non crederlo, dopo ben due guerre mondiali in cui Russia e Stati Uniti sono intervenuti per salvare l’Europa da se stessa? Eppure oggi, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino, c’è un consapevolezza sempre più diffusa che quelle garanzie (unilaterali) non solo hanno un prezzo più alto che nel passato ma sono anche potenzialmente confliggenti con il nostro interesse. E’ una consapevolezza che per prima ha toccato la classe dirigente dei Paesi forti dell’ area euro, i quattro (Francia, Italia, Germania e Spagna) che nel mese scorso si sono riuniti a Versailles per cercare un accordo per un rafforzamento della politica estera e di difesa a livello europeo. E’ una consapevolezza, al contempo, che è avvertita con forza sempre maggiore dall’altra parte dell’ oceano. Basta leggere gli ultimi articoli del Whashington Post e del New York Times per rendersi conto che le dichiarazioni che noi leggiamo con approssimazione e superficialità da parte dei nostri capi di Stato stanno interrogando giornalisti e politologi americani. La domanda è: l’Europa è pronta a ritrovare un proprio posto nel mondo, mettendo da parte le piccole gelosie e rivalità, incomprensibili ad un occhio esterno, tra Stati che sembrano avere modelli politici e sociali molto simili? Usando una metafora che riprende in chiave contemporanea le tesi del politologo Robert Kagan, potremmo dire che il rapporto tra l’Europa e gli Stati Uniti oggi è quello che c’è tra una vecchia coppia di sposi. L’ Europa è la sposa ricca, stanca del marito e consapevole che gli interessi, i gusti e le passioni dei due ormai hanno preso due direttrici opposte. Tanto più che il marito sembra non tenerla più in conto come una volta e anzi la considera sempre più alla stregua delle altre donne del paese. Eppure cosa accadrebbe in caso di divorzio? La nostra sposa non si ricorda più cosa significhi vivere da sola, provvedere a sé stessa e trovare la forza per iniziare una nuova vita. Il timore di sbagliare è enorme e la stabilità che sembra aver trovato con sé stessa potrebbe essere precaria. Da una parte la felicità e l’indipendenza, dall’altra la sicurezza e l’abitudine, quale delle due è la strada migliore? La società europea è ormai profondamente influenzata dal modello americano, forse più che qualsiasi altra parte del mondo. La musica, il cinema, le piattaforme web, il cibo…praticamente ogni aspetto della nostra vita è stato toccato dalla cultura statunitense. Eppure il rapporto non sembra essere reciproco. A Donald Trump è bastato vedere l’effetto, ben meno invasivo, dell’ industria automobilistica tedesca sul mercato americano per chiamare un nuovo protezionismo. Paradossalmente proprio oggi la tentazione di molti europei (e tra loro di molti italiani) sembra essere quella di lasciare la nave europea che sta per salpare, tornando sulla rassicurante terra ferma, prima di dover affrontare le incognite del mare aperto. Una volta partiti non ci sarà più molta scelta sui compagni di viaggio, ma si dovrà lavorare, nel bene e nel male, affinché la nave approdi da qualche parte. Come si vede la questione alla fine è sempre la stessa e non è politica o istituzionale ma psicologica: siamo ancora in grado di credere in noi stessi?