Oggi possiamo dirci davvero europei? Se bastassero i simboli a rivitalizzare le coscienze sarebbe sufficiente trasformare Ventotene da isola del confino fascista e del Manifesto a sede della prossima e auspicabile costituente europea. D’altronde Maastricht chi la conosceva prima del Trattato? Oggi è un polo importante di studio del diritto comunitario e molti ragazzi italiani vanno lì a cercare una specializzazione che gli valga un passaporto per l’Europa. Ma i simboli non bastano se non si ha una storia condivisa e gli stati non nascono se non lo desiderano i cittadini.
Siamo al sessantaquattresimo anniversario della firma dei Trattati di Roma che istituirono la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia atomica (CEEA) e nelle celebrazioni degli 80 anni del Manifesto di Ventotene. Rispetto al Trattato della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) i trattati di Roma contenevano tre affermazioni importanti: il carattere irreversibile dei processo di integrazione comunitaria, il ruolo della Comunità per garantire la pace non solo fra Germania e Francia ma in tutto il continente e come modello a livello internazionale, l’obiettivo di una prosperità condivisa fra i popoli che ne avrebbero fatto parte. Qualcosa si è fermato. I trattati di Roma hanno segnato tuttavia una regressione rispetto a quello di Parigi della Ceca, perché il ruolo dei governi nazionali è ormai diventato preponderante rispetto a quello della Commissione e perché il raggiungimento della prosperità condivisa è stato di fatto totalmente ceduto in modo esclusivo all’economia di mercato e alla leva monetaria nell’eurozona. Lo si è visto anche con il varo del Next Generation Eu nell’anno della pandemia: senza il sì di Francia e Germania sarebbe rimasto solo una proposta della Commissione.
Per quasi trent’anni, nonostante il crescere delle sfide a livello europeo e internazionale e gli evidenti difetti del connubio fra il preponderante metodo intergovernativo e il decrescente ruolo del metodo comunitario a cui si era aggiunta nel 1979 l’elezione a suffragio universale e diretto di un Parlamento, con poteri quasi esclusivamente consultivi, i trattati di Roma sono stati considerati non modificabili dai governi nazionali. Ingessati nelle dinamiche ieri nazionali e oggi nazionaliste.
E’ noto che questo tabù fu rotto dal Parlamento europeo con il progetto di Trattato del 1984 ma la risposta dei governi – che si consideravano e si considerano padroni dei trattati – fu il modesto Atto unico, come definito da Pier Virgilio Dastoli. Da allora le sfide continentali e mondiali sono cresciute, in soli trent’anni abbiamo assistito al crollo del Muro di Berlino, alla nascita dell’Unione Monetaria e dell’euro, all’avvento della globalizzazione, alla prima grande crisi finanziaria dell’Ue, alla pandemia di Covid. Tutto ciò in una situazione in cui si è resa irreversibile l’interdipendenza economica, finanziaria, sociale, ambientale e culturale. Sono così aumentate le pulsioni contro il multilateralismo e è diventato insopportabile nell’Unione il peso delle sovranità nazionali. Tutto si è fermato.
Nessun passo avanti sulla riforma della governance finanziaria, eppure oggi vediamo quanto servirebbe un ministro del Tesoro unico, l’Unione fiscale e regolamenti bancari che non violino la nostra Costituzione. Nessuna modifica alla politica dell’accoglienza, ferma al disimpegno sul ricollocamento dei migranti che di fatto permette a tutti i paesi di avere buoni motivi per mantenere chiuse le frontiere. Nessuna azione concreta per sollecitare i giovani, gli unici che possano davvero dare una scossa a quest’Europa polverosa e burocratica, mentre invece sono relegati, anche nelle prossime elezioni, a pura rappresentanza di genere: uno studente, un disoccupato, un migrante, una donna magari. Nessun intervento sui piani scolastici dove si dovrebbe proprio studiare la storia dell’Unione Europea per costruire l’anima che ci manca.
In un celebre discorso nel 1946 a Zurigo Winston Churchill indicò lo spirito che si doveva perseguire. ‘’Per evitare che tornino le epoche buie c’è un rimedio. E qual è questo rimedio sovrano?’’, si chiese. ‘’Esso consiste nella ricostruzione della famiglia dei popoli europei, o in quanto più di essa possiamo ricostituire, e nel dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza e in libertà. Dobbiamo creare una specie di Stati Uniti d’Europa. Solo in questo modo centinaia di milioni di lavoratori saranno in grado di riconquistare le semplici gioie e le speranze che rendono la vita degna di essere vissuta. Il procedimento è semplice. Tutto ciò che occorre è che centinaia di milioni di uomini e donne decidano di fare il bene invece del male e di meritare come ricompensa di essere benedetti invece che maledetti’’. Sembrava impossibile, ma così è stato.
Si può dire che oggi 500 milioni di europei e soprattutto i loro governi, stanno lavorando nella stessa direzione? E che finita l’emergenza sanitaria si continuerà nel cammino importantissimo del debito comune? L’Unione di oggi sembra l’Unione delle libertà, dove a parole tutti sono europeisti ma nei fatti la voglia di tornare agli Stati nazione e ai campioni industriali è tanta e cova sempre sotto la cenere.
La Conferenza sull’Europa diventa così un’occasione, forse pletorica, ma comunque unica nel suo genere – la consultazione dal basso di tutti i cittadini europei – per produrre una serie di proposte che rilancino il corso delle riforme europee.
In quattro tempi: Costituente, Difesa e Ambiente, Riforme e Formazione. Innanzitutto i partiti europei e quelli nazionali nei paesi dell’Eurozona devono assumere nei loro programmi un preciso impegno per redigere finalmente la Costituzione di una futura Comunità federale, che sia poi approvata attraverso un referendum popolare pan-europeo, dove vengano sanciti i valori essenziali dello stato di diritto: la supremazia della legge, l’eguaglianza, il pluralismo dell’informazione, la separazione dei poteri, i diritti fondamentali, le diversità culturali. Nell’ambito di queste identità serve con la massima urgenza una politica europea per le migrazioni che garantisca il diritto di asilo e obblighi gli Stati membri ai doveri d’accoglienza, rinnovando la cooperazione con l’Unione Africana e la Lega Araba e promuovendo un vero piano europeo di investimenti. Sul fronte invece della sicurezza interna dei cittadini, occorre creare una dimensione europea nella lotta alla criminalità organizzata, alla corruzione e al terrorismo transnazionali, gettando le basi di un diritto penale europeo, rafforzando i poteri della Procura europea e creando un’Agenzia di intelligence comune, un Fbi europeo. Il tutto, ovviamente, non può reggere senza una politica estera unica, che sia fondata su una sola voce dell’UE nelle sedi internazionali e sul voto a maggioranza nel Consiglio.
Dal punto di vista industriale, occorre recuperare il terreno perduto. Bisogna attuare pienamente gli obiettivi delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile e affrontare nello stesso tempo i problemi della digitalizzazione e dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, che potrebbero avere effetti devastanti sull’occupazione.
Non si può però attuare nulla di questo programma senza radicare nelle fondamenta della società e tra i giovani il principio di cittadinanza federale attraverso la formazione. Questo obiettivo può essere raggiunto rendendo obbligatorio nelle scuole di ogni ordine e grado lo studio dell’educazione civica europea, dei trattati e della futura costituzione europea, mentre vanno introdotti elementi essenziali di studio del diritto europeo in tutte le facoltà universitarie. Solo così avrà ancora un senso parlare di Unione di diversità nella libertà. Solo così daremo uno stato ai cittadini europei e dei cittadini a uno Stato.