L’Europa ha il vento in poppa ma vuole ammainare le vele. Almeno a leggere con occhio critico le nuove proposte avanzate per riformare l’Unione del Presidente della Commissione Jean Claude Juncker. Che ci si muova finalmente verso una maggiore integrazione è un dato certamente positivo. Che a quasi dieci anni dalla crisi, alcuni indicatori, a cominciare dalle borse, ai massimi dal 2008, passando per la crescita, ora sopra il 2,5% nell’Ue, per finire con i tassi d’interesse, sempre sotto l’1%, volgano al bello, è anche questo un segnale incoraggiante. Stupisce quindi che si voglia però riformare l’architettura comunitaria con aggiustamenti che potrebbero far tornare l’austerity. Analizzando i quattro punti fondamentali del piano Juncker qualche dubbio in effetti sorge. E’ davvero quello che serve all’Europa?
La prima proposta del pacchetto è quella relativa all’istituzione di un Fondo monetario europeo (FME), ancorato all’ordinamento giuridico dell’UE e basato sulla struttura ormai consolidata del Meccanismo europeo di stabilità (MES), che ha svolto un ruolo importante durante l’eurocrisi ed ora è sostanzialmente chiuso per lavori in corso. Negli ultimi anni il MES ha effettivamente ricoperto una funzione determinante nel salvaguardare la stabilità della zona euro, aiutando gli Stati membri a riconquistare o a mantenere l’accesso ai mercati delle obbligazioni sovrane. Lo sostiene la Commissione e non si può negarlo. L’FME nascerebbe sulle ceneri del Fondo salva stati, mantenendone ‘’sostanzialmente l’attuale architettura finanziaria e istituzionale, anche per quanto riguarda il ruolo svolto dai parlamenti nazionali’’. Continuerebbe in tal modo ad assistere gli Stati membri della zona euro che versano in difficoltà finanziarie. Fornirebbe inoltre un meccanismo di backstop comune per il Fondo di risoluzione unico e fungerebbe da prestatore di ultima istanza al fine di facilitare la risoluzione ordinata delle banche in difficoltà. Si prevedono anche un processo decisionale più rapido in caso di urgenza e un coinvolgimento più diretto nella gestione dei programmi di assistenza finanziaria. Ecco qui che sorgono i primi dubbi. Se serviranno, come propone Juncker, solo l’85% dei voti per varane le decisioni, il potere di veto che oggi hanno rispettivamente Germania, Francia e Italia, con la loro quota del 15%, scatterà solo nei primi due paesi, mentre il Belpaese, visto l’allargamento previsto dell’Eurozona, rischia di restare fuori e veder diluita la sua attuale quota del 17%. In soldoni, non saremo in grado di fermare un repentino commissariamento dei conti pubblici italiani se non faremo alleanze con qualche paese dell’Est. Logica vuole che il governo di Roma intervenga per tempo, entro metà del 2019, per evitare di restare fuori, da paese fondatore, dalla stanza dei bottoni. Inoltre, la dotazione attuale del Fondo è di 65 miliardi di euro e si può arrivare a 500 con l’effetto leva. Bastano per tutti i paesi e per i loro sistemi bancari in caso di default?
Il secondo step del programma della Commissione suscita perplessità, laddove prevede una road map per trasformare in trattato il Fiscal Compact. Un paio di anni fa si sviluppò moltissimo il dibattito sulla necessità di cambiare questa Costituzione europea dei conti pubblici, soprattutto grazie a Matteo Renzi. Poi, grazie alla capacità tutta italiana di rimuovere i problemi, ci si è dimenticati che questa mannaia sul debito scatterà prima o poi. E lo stesso Juncker lo ha ricordato. Serve ‘’una proposta mirante ad integrare, nella sostanza, il trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’ordinamento giuridico dell’Unione, facendo uso dell’adeguata flessibilità insita nel patto di stabilità e crescita e individuata dalla Commissione sin dal gennaio 2015’’. Nel 2012 i 25 Stati membri firmatari si sono impegnati giuridicamente ad incorporare nel diritto dell’Unione le disposizioni contenute in tale trattato cinque anni dopo la sua entrata in vigore, vale a dire il primo gennaio 2018. Si rischia quindi, come nel caso del bail in, di ritrovarsi in casa nuove norme stringenti che obbligheranno l’Italia, in assenza di crescita e di inflazione, a ridurre di un ventesimo l’enorme del debito pubblico eccedente il 60% del Pil. Il governo Gentiloni lo sa bene e lo stesso Ministero dell’Economia, nel commentare il piano, ha ricordato che l’Italia, nel corso delle future trattative, ‘’sottolineerà la necessità di adottare la proposta solo se parte di una riforma complessiva della
governance economica’’. Secondo la Commissione Europea, la proposta ‘’è pienamente in linea con le norme di diritto primario e derivato attualmente in vigore’’. Sarà pur vero, ma il nostro paese resta sempre quello con un debito privato, fuori da ogni calcolo contabile, molto inferiore rispetto alla media europea. Sarebbe il caso di considerare finalmente nel Fiscal Compact anche questo elemento visto che la nuova normativa sui salvataggi bancari prevede che sia proprio quello ad intervenire al posto degli stati in caso di fallimenti.
Il terzo punto del pacchetto del presidente lussemburghese, che ha almeno due candidate a succedergli nel 2019, la cancelliera tedesca Angela Merkel, e la Commissaria al Mercato la danese Margrethe Vestager, affronta poi la necessità di redigere un bilancio integrato dell’Eurozona. Sulla carta non ci sarebbe nulla di male. Bisogna capire però cosa intenda per ‘’nuovi strumenti di bilancio atti a garantire la stabilità della zona euro nel quadro dell’Unione’’. La comunicazione della Commissione esamina quattro funzioni specifiche: a) un sostegno alle riforme strutturali degli Stati membri, attraverso uno strumento per la realizzazione delle riforme e un’assistenza tecnica, su richiesta degli Stati membri; b) uno specifico strumento di convergenza per gli Stati membri in procinto di aderire all’euro; c) un meccanismo di backstop per l’Unione bancaria, tramite il futuro Fondo monetario europeo, da concordare entro il primo semestre del 2018 e da rendere operativo entro il 2019 e d) una funzione di stabilizzazione, al fine di mantenere i livelli di investimento in caso di gravi shock asimmetrici. I punti c) e d) se non specificati meglio, sembrano a naso delle trappole per topi con alto debito pubblico. Meglio quanto proposto dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, di istituire un Fondo Europeo per l’indennità di disoccupazione da attivare in caso di shock. Non serve addolcire la pillola l’annuncio di Bruxelles di voler aumentare per il periodo 2018-2020 il programma di sostegno alle riforme strutturali raddoppiando, di qui al 2020, i finanziamenti disponibili per le attività di supporto tecnico fino 300 milioni di euro. Su quasi 1.000 miliardi di euro di bilancio europeo sembrano una goccia nel mare, considerato che da quella cifra quasi il 40% va alle politiche agricole, in un mondo ormai che viaggia col digitale e che da questo pacchetto gigantesco si crea un contributo al Pil comunitario solo dell’1%. Perché allora non cambiare rotta per davvero, incentivando non solo le riforme ma gli investimenti pubblici, finalmente scomputandoli dal deficit?
Il quarto punto è quello sulla carta più coraggioso e più pericoloso insieme. Se è giusto da una parte pensare alla creazione di un ministro europeo dell’Economia e delle finanze che potrebbe fungere da vicepresidente della Commissione e da presidente dell’Eurogruppo, come sarebbe possibile in base agli attuali trattati dell’Unione, dall’altra non si capisce perché non sia arrivato finalmente il momento di un ministro del Tesoro europeo. Che emetta eurobond e porti alla condivisione del debito, unica spina dorsale di qualsiasi federazione di stati. Juncker sostiene che l’Eurogruppo potrebbe inoltre decidere di eleggere il ministro suo presidente per due mandati consecutivi in modo da allineare la durata dei due incarichi. Sono opzioni tecnicistiche che sembrano solo un favore alla Germania che mira ad avere il pieno controllo delle finanze pubbliche altrui e della Banca centrale europea, una volta che nel 2019 Mario Draghi finirà il suo mandato da colomba.
“L’Europa ha il vento in poppa“, sostiene Juncker e ha ragione. Basti vedere cosa accade con la Brexit: la Gran Bretagna è in uscita dall’Unione Europea ma si potrebbero avere tre paesi e una città in entrata nell’Unione Europea (Scozia, Irlanda del Nord, Galles e la City di Londra). Il 64% delle persone interrogate da Eurobarometro ritiene quindi che avere l’euro sia positivo per il proprio paese. Non si capisce quindi perché varare riforme che produrranno bonaccia e sfiducia.