Gli europeisti sono ammutoliti. Dispersi in mille rivoli, non pensavano di trovarsi al centro di una battaglia come quella che sarà la competizione elettorale nel maggio del 2019. Abituati a parlare dei padri fondatori dell’Europa unita spesso in polverosi e semivuoti convegni, oggi si trovano, come molti partiti, nel bezzo di uno scontro tra unionisti e sovranisti che sfocerà nelle consultazioni comunitarie sicuramente più partecipate e sentite da quando esiste l’Ue. Gli argomenti di una parte, quella più ortodossa, non mancano, ma il fatto che siano rimasti tali e non abbiano preso una forma concreta, li ha trasformati nel cavallo di battaglia delle forze nazionaliste che puntano invece a smontare tutto quanto costruito dal 1957 ad oggi. E preoccupa che manchi totalmente un minimo di autocritica. Vediamo perché.
Per perfezionare l’Unione Europea mancano alcuni tasselli fondamentali che l’hanno resa incompiuta. Dal punto di vista bancario, l’architettura comunitaria necessita del completamento della garanzia centrale sui depositi che renda omogenea la rete protettiva sui conti correnti di milioni di europei. Da almeno un paio di anni, i tedeschi però puntano i piedi; immemori di aver salvato con 227 miliardi di euro di soldi pubblici le proprie casse di risparmio, pretendono in cambio che i titoli di stato nei bilanci delle banche non siano più a rischio zero. La trattativa si è così arenata, per gli evidenti motivi di preoccupazione di paesi ad alto debito come l’Italia, che si affida per un terzo a compratori quali proprio gli istituti di credito. In questo contesto, risultano comprensibili le proteste di tutti coloro che hanno attaccato il sistema di salvataggio bancario, il famoso bail in, andato in vigore nel 2016. Se l’Europa fa mettere in sicurezza gli sportelli dagli stessi loro clienti, ragionano i nazionalisti, a che serve?
Analogo discorso si può fare per il Fondo salva-banche che dovrebbe interagire con il Fondo salva-stati, aumentandone la portata finanziaria. Finora l’Italia ha versato qualcosa come 50 miliardi di euro tra prestiti bilaterali e contributi per mettere in sicurezza paesi come la Grecia, ma della condivisione effettiva dei rischi sistemici, jappena ricordata dal presidente della Bce, Mario Draghi, non si vede traccia. Senza questa riforma fondamentale, non si può arrivare nemmeno a discutere di un terzo pilastro, caro a chi scrive come a tanti esperti, quello dell’emissione di eurobond, titoli di debito comune che sostituiscano, prima o poi i titoli di stato nazionali. Anche qui le resistenze principali sono di Berlino, che per ora non vuole nemmeno sentir parlare di condivisione del debito, seppur a suo tempo alcuni saggi di Angela Merkel lo proposero. La forza di una vera federazione sta infatti nel poter fare indebitamento in una moneta che si controlla, come negli stati Uniti e come non avviene nell’Eurozona. Questa storpia rende meno avveniristiche e più concrete le tesi di coloro che reclamano a questo punto il ristabilimento della sovranità monetaria, con il ripristino del canale privilegiato tra Banca d’Italia e Tesoro, il famoso matrimonio che proprio in vista di Maastricht fu reciso e che rappresenta dal 1795 la forza americana. Rivogliono le chiavi di casa, sostengono i sovranisti, in molti oggi nella compagine di governo gialloverde, e non è detto che abbiano torto se alla lunga non nasceranno i bond europei. Ecco un altro argomento riformista che se non sviluppato diventa un ariete degli antieuropeisti.
Se si passa poi al sistema tributario il quadro si completa ulteriormente. Non è più comprensibile, né spiegabile a milioni di cittadini e soprattutto a tanti imprenditori, il motivo per cui nella stessa area della moneta unica ci possano essere paradisi fiscali
per le grandi multinazionali come l’Irlanda, il Lussemburgo e in alcuni casi anche l’Austria, che detiene il segreto bancario in Costituzione. Per una maggiore integrazione, ragionano da tempo gli analisti, serve assolutamente l’Unione Fiscale. Altrimenti avrà ragione chi vuole rendere più competitivo il proprio paese, come sta facendo Donald Trump negli Stati Uniti, abbassando il sistema impositivo sulle aziende e erigendo magari dazi all’entrata.
Ma è sui conti pubblici che si consuma definitivamente questo paradossale passaggio di consegne tra chi vuole riformare l’Europa in chiave europeista e chi desidera ridurre il potere dei burocrati di Bruxelles. Da anni si discute di rivedere le norme sul Fiscal Compact, costituzione economica non scritta che impone la riduzione del debito per raggiungere il pareggio di bilancio senza mettere un euro sulla crescita. Questo trattato impone per come è stato concepito misure spesso pro-cicliche, che peggiorano cioè le cose quando già vanno male. Averlo inserito in Costituzione come ha fatto l’Italia, oltre a rendere difficoltosa ogni manovra, e ne sa qualcosa il governo Conte, come tutti i suoi predecessori, ogni anno all’affannosa ricerca della quadratura del cerchio, dove la prima sta per rispetto del 3% di deficit-pil e il secondo per rilancio dell’economia, è stato suicida perché rende asfittica ogni politica economica e d’altro canto vigorosa ciascuna campagna che si basi sullo sfondamento dei parametri di budget. Si può colpevolizzare Prometeo se vuole liberarsi dalla catene?
A questo quadro seppur sintetico, si possono aggiungere la mancanza di sanzioni ai paesi che non hanno adempiuto agli accordi presi dal 2015 sul ricollocamento dei migranti, rendendo il problema centrale con tutti i pericoli del caso; la difficoltà di costituire un esercito comune che prenda le mosse da una difesa comune dei confini; la mancanza di un dibattito che porti alla concreta istituzione di un Fbi europea, fondamentale per combattere il terrorismo internazionale.
Tutte queste riforme incompiute sono diventate le crepe che possono far crollare quella che sembra la Torre di Babele europea. Oggi, agli evidenti motivi che esistono ancora per rimanere uniti, dalla libertà di espressione a quella di movimento, passando per il mercato unico e tutte le sue tutele (free roaming, liberalizzazioni vincenti nel settori dei trasporti e delle telecomunicazioni), finendo per il rispetto dei diritti umani, si contrappone la convinzione che questa Europa sia vecchia e in bianco nero per le sfide che incombono: la riduzione del lavoro tradizionale, i nuovi monopoli digitali, il senso diffuso di insicurezza derivante dagli effetti della globalizzazione.
In molti pensano che l’Unione Europea e le sue varie istituzioni, dalla Commissione al Parlamento, per finire alla Banca centrale europea, abbiano fatto ben poco per arginare queste disuguaglianze dirompenti e anzi ne siano corresponsabili.
Prendere atto di ciò non significa cedere al populismo ma comprendere che la realtà spesso è diversa da quella che ci raccontiamo nei seminari e che vorrebbero immaginare a tavolino coloro che scrivono trattati e norme contabili.