Riflessioni sul passato e alcune speranze per il futuro dell’Ue a trentadue anni dalla scomparsa di Altiero Spinelli
Esattamente trentadue anni fa veniva a mancare uno dei padri fondatori dell’Unione, quello che probabilmente più di tutti si è battuto per mettere i cittadini europei al centro del processo di integrazione. Altiero Spinelli nasce a Roma il 31 agosto 1907.Dopo aver conseguito la maturità classica, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza ma nel 1924, dopo l’omicidio Matteotti, decide dimilitare nel Partito Comunista. A diciotto anni è già passato alla clandestinità, a diciannove è arrestato e condannato a sedici anni di carcere dal regime fascista. Considerato nei verbali della PS “elemento pericolosissimo per l’ordine pubblico”, pur giovanissimo e nonostante le pressioni dei familiari, non tradiscemai i compagni e rifiuta costantemente di chiedere la grazia. Nel decennio di galera scontato tra Roma, Lucca, Viterbo e Civitavecchia matura il suo progressivo distacco dall’ideologia comunista che lo porta ad essere espulso dal Partito dando inizio al suo vagabondare nella “cittadella democratica”. Il suo errare giunge a termine quando, in seguito ad un’amnistia, viene inviato al confino a Ponza e poi a Ventotene, dove conosce, tra gli altri,Eugenio Colorni, Ursula Hirschmann ed Ernesto Rossi. Insieme a quest’ultimo riesce a mettere per iscritto i contenuti delle varie discussioni ventotenesi: nasce così il “Manifesto per un’Europa libera ed unita”, detto “di Ventotene”. Liberato nel 1943, Spinelli, sulla base delle idee del Manifesto, fonda a Milano il Movimento Federalista Europeo e, in seguito, espatria in Svizzera per cercare di rilanciare a livello continentale le nuove parole d’ordine federaliste. Dopo numerosi anni di impegno e di campagne alla guida del Movimento Federalista Europeo e dell’Unione dei Federalisti Europei, è consigliere politico del governo italiano, svolge il ruolo di Visiting Professor all’Università Johns Hopkins di Bologna, è collaboratore della casa editrice Il Mulino, fonda il Comitato Italiano per la Democrazia Europea (CIDE), l’Istituto Affari Internazionali (IAI) e, dal 1970 fino al ‘76, è nominato membro della Commissione esecutiva della CEE. Nel decennio ’76-’86 è eletto deputato europeo come indipendente nelle liste del Partito Comunista e crea un intergruppo parlamentare in favore della Federazione europea detto il “Club del coccodrillo”. Nel 1984 è chiamato a presiedere la Commissione istituzionale del Parlamento europeo e, con questo incarico, svolge la sua ultimagrande azione: l’approvazione del “Progetto di Trattato istitutivo dell’Unione europea” che dà inizio al processo di riforma delle Comunità e che tramite l’Atto unico (1986) e il Trattato di Maastricht (1992) porta alla creazione dell’Unione europea.
Chi era Altiero Spinelli? Un rivoluzionario, senza dubbio. Con le sue parole e la sua azione politica, ha reso l’idea dell’unificazione del continente tramite la creazione di una democrazia sovranazionale, un concreto progetto politico oltre la mera utopia. Spinelli è un realista nel senso classico, ma ha al contempo una visione che possiamo definire neoistituzionalista: ritiene che ad un certo livello di «integrazione» nelle politiche europee debba corrispondere un avanzamento nella «costruzione» istituzionale, riconoscendo alle istituzioni sovranazionali un ruolo di primo piano nel processo di unificazione. Nella sua azione ha sempre considerato essenziali le idee e i movimenti “dal basso” nell’arena politica, proponendo varie iniziative volte al coinvolgimento diretto dei cittadini nel tentativo di influenzare le élite politiche, come dimostrano la stessa fondazione del Movimento Federalista Europeo o l’iniziativa del Congresso del Popolo Europeo (nata sulla base del Congresso Indiano di Gandhi). Spinelli non è mai stato un sognatore, lo distingue infatti una grande genialità tatticache gli ha permesso di muoversi dentro e fuori le istituzioni europee, sempre con grande decisione e coraggio, andando oltre ogni “tecnicismo” funzionalista e limite posto dai governi nazionali.
Quella stessa decisione e quel coraggio non traspaiono però nei fatti che oggi seguono gli ormai innumerevoli riferimenti a Spinelli e al Manifesto di Ventotene. Di fronte alla crisi che stiamo vivendo né le istituzioni nazionali, né quelle europee riescono a fornire ai cittadini una coerente analisi del presente e, di conseguenza, una chiara visione del futuro. Gli stessi riferimenti alle idee rivoluzionarie come quella federalista, sono spesso appiattite tra luoghi comuni e la ricerca del politicamente corretto. Nell’anniversario della morte di un uomo tanto grande quanto scomodo non ci si può allora limitare al melanconico buonismo di una memoria che giustifichi lo status quo, relegando il personaggio in questione ad un passato dipinto come glorioso, ma dai colori sbiaditi. Come afferma Chomsky, si deve “interpretare il mondo per trasformarlo”, questo può essere il vero esercizio per onorare la memoria di Altiero Spinelli.
Ormai la realtà è cambiata radicalmente dai tempi in cui gli stati europei erano delle potenze capaci di governare il mondo. Ci sono state almeno tre svolte dal punto di vista geopolitico successive alla Seconda Guerra Mondiale: siamo passati dall’equilibrio bipolare USA – URSS, al tentativo recentemente fallito dell’egemonia statunitense, fino al consolidarsi di un nuovo equilibrio multipolare competitivo dominato da alcune potenze continentali (USA e BRICS). Per non perdere importanza, gli stati europei hanno messo insieme una parte sostanziale della sovranità, come la moneta, ma questo non è stato sufficiente per creare un vero attore internazionale all’altezza delle sfide storiche che abbiamo di fronte. La realtà globalizzata non cambia più alla velocità delle stagioni, ma delle ore, e una governance non può sostituire la capacità decisionale e l’efficacia di un governo. Un click può significare l’inizio di un attacco di cyber-terrorismo o il trasferimento di milioni di dollari. Sappiamo che le risorse non sono infinite e stiamo oltrepassando il punto di non ritorno dello sfruttamento del pianeta. Le guerre non si combattono più esclusivamente fra paesi e siamo costretti a ridefinire gli stessi concetti di pace, stato-sovranità, guerra e sicurezza. Stiamo assistendo da spettatori all’internazionalizzazione e alla tecnicizzazione dell’economia con la capacità della politica solo di assecondarne il processo. Falliscono i sistemi sociali e politici di intere nazioni ed è instabile larga parte del mondo costruito a tavolino durante la decolonizzazione, mentre cercano di spostarsi decine di milioni di persone per fuggire da guerre o povertà. In questo contesto, la capacità di problem solving delle istituzioni che abbiamo a disposizione in Europa spesso non è adeguata. La mancanza della volontà politica di andare risolutamente verso la creazione di una vera democrazia sovranazionale, in questo ultimo decennio di crisi economica, ha creato uno scenario nuovo rispetto al recente passato dell’Unione europea. I piccoli passi avanticompiuti non vanno più necessariamente nella direzione dell’unione politica, come accaduto agli inizi del processo di integrazione. C’è un tracollo di fiducia e di consenso verso il progetto europeo e la storia ne ha anche confutato l’irreversibilità del cammino. La “Brexit”, la sfiducia dei cittadini, le spinte centrifughe e il ritorno ad un forte nazionalismo identitario, autoritario, xenofobo non sono più dei semplici campanelli di allarme, ma fenomeni affermati. È, inoltre, sempre più forte il partito del grigio: tra il bianco e il nero, tra l’ambizioso progetto federale e il ritorno violento dei nazionalismi; a trionfare per il momento è stata la “palude”. Il riformismo senza bandiera, l’avanzamento verso la tecnicizzazione, l’intergovernativismo, la depoliticizzazione delle policies sono le risposte che caratterizzano un progressivo allontanamento delle istituzioni dai cittadini e i sintomi della crisi della democrazia rappresentativa. Si pensa alla stabilità di un sistema in crisi, ma sembra essere ancora lontana la possibilità di una via di uscita costituzionale nel breve periodo.
Con il sogno della necessità del progetto europeo sta morendo anche quello che Castaldi, traendone le categorie da Elias, definisce “il processo di civilizzazione dei rapporti tra gli stati”. L’interiorizzazione della violenza per una interdipendenza progressiva non ci pone più davanti a due strade tra “l’unirsi o il perire” di spinelliana memoria. Da un lato, le istituzioni europee non sono più “inconsistenti” o neutrali, ma agiscono in aree di policy sempre maggiori. Sebbene poco efficaci e frutto di un sistema prigioniero dell’unanimità del Consiglio, l’adozione di una politica economica elevata a dottrina di rapporto tra gli stati, l’esternalizzazione dei costi umani dei flussi migratori, la debolezza con cui si persegue la violazione dei diritti umani e il flebile intervento per la crisi democratica in Ungheria e in Polonia sono scelte percepite come “europee” che colpiscono direttamente la società. Dall’altro lato, come previsto dai federalisti, gli stati nazionali sono in crisi, ma non sono quella “polvere senza sostanza” che definiva il Presidente Einaudi alcuni decenni fa. Pur non avendo alcuna possibilità di governare i fenomeni della globalizzazione, gli stati hanno fatto sentire di nuovo con forza i residuati della loro sovranità tra la sospensione di Schengen, il ripristino delle frontiere e in certe misure di protezionismo.
Esiste dunque una crisi sistemica, che colpisce tutto il sistema europeo, dagli stati nazionali alle istituzioni europee, ma non basta a definire la situazione contemporanea. Vivere la quotidianità dell’emergenzialismo, dell’incapacità della politica di risolvere i problemi insieme alla mancanza di un governo per la globalizzazione, hanno causato una crisi di valori, della società, delle narrazioni che è decisamente totalizzante. L’Unione europea intanto è passata rapidamente nel dibattito politico da capro espiatorio a promessa di redenzione contro il ritorno dei sovranismi. Il problema è che le proposte di avanzamento istituzionale non vengono portate avanti e non si dà realmentel’opportunità di funzionare all’Unione vincolando le sue scelte a dei processi democratici. Così facendo abbiamo screditato anche le istituzioni sovranazionali per lasciare ogni afflato di trasformazione arginato nel mondo dell’irrealizzabile o dell’utopia in nome di un fantomatico realismo politico. L’impressione è di essere costantemente imprigionati in un circolo vizioso, che continua ad alimentarsi, di scadenze elettorali e permanenti decisioni straordinarie. Il pericolo di restare in questa situazione è che lentamente divenga accettabile il ritorno al sistema westfaliano con tutte le sue tragedie, e una rivalutazione del “Secolo Breve” senza riflettere sulle conseguenze di un mondo dominato dal nazionalismo competitivo.
Non stiamo parlando di una crisi passeggera, questo è probabilmente l’autunno del sogno europeo, il sonno della politica e della memoria ha generato una situazione che non lascia più molto spazio al concetto di crisi-opportunità, quanto più a quello di “crisi-interregno” ben definito da Gramsci: “La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. La fine di un’epoca con la caduta del muro di Berlino non ha riguardato solo il socialismo, ma ha segnato un momento essenziale nella storia dell’integrazione europea con il passaggio dall’entusiasmo a quel progressivo allontanamento dei cittadini che è stato definito “post Maastricht blues”. Viviamo in un mondo privo ormai di grandi narrazioni e poggiato su un presentismo portato avanti all’ossessione. Non ci soffermeremo qui sulla crisi delle ideologie ben definita da Albertini o sul deserto post-ideologico, ma possiamo comprendere come questo terreno di povertà spirituale ed economica sia fertile per gli estremismi di ogni colore. Spesso vediamo confondere la fine delle ideologie e il rifiuto della politica con “una forma di saggezza senza tempo”, ma il presente ci chiede di prendere posizione per cercare di uscire da questa impasse democratica, istituzionale e identitaria, per decidere che mondo lasciare alle prossime generazioni. Per dirla con un’immagine di Altiero Spinelli: “Nella storia della civiltà il bene comune è stato, di volta in volta, la città-stato, l’impero, la classe, la nazione. Ci troviamo alle soglie di un’epoca in cui il bene comune può finalmente essere concepito come quello dell’umanità intera. Tocca ai federalisti tradurre queste indicazioni culturali in azione”. Forse recuperare la memoria di questo messaggio rivoluzionario può davvero aiutarci ad elaborare una chiave di volta per comprendere l’attualità e darci la forza, non di realizzare un mondo utopico, ma di tornare ad immaginare il migliore dei mondi possibili.
Concludendo il ricordo del nostro padre fondatore con le parole pronunciate a Ventotene il 21 maggio 2006 dal Presidente della Repubblica Napolitano: «Chi si accinge ad una grande impresa – scrisse Altiero qualche mese prima di lasciarci – non sa “se lavora per i suoi contemporanei o per i suoi figli, che lo hanno visto costruire ed erediteranno da lui; o per una più lontana, non ancora nata generazione che riscoprirà il suo lavoro incompiuto e lo farà proprio”. Ebbene, egli ha lavorato per tutti». Ecco il significato di un impegno concreto per l’Europa di Ventotene, di Spinelli o dei cittadini europei. Non arroccarsi dietro quello che c’è ostrumentalizzare un passato ormai obsoleto, ma avere il coraggio di andare chiaramente avanti verso il futuro. Basta proclami, servono risposte e atti concreti che diano di nuovo una speranza ai cittadini europei: siamo ormai una comunità di destino; dunquequale domani vuole restituirci questa classe dirigente? Tutti noi, semplici cittadini, dobbiamo però essere i primi a reagire se davvero teniamo ai valori che l’Europa rappresenta e se vogliamocambiarla senza distruggerla, ad un solo anno dalle elezioni di quel Parlamento che si riunisce a Bruxelles nel Palazzo che prende il nome proprio di “Altiero Spinelli”.
Giulio Saputo e Antonio Argenziano