Quest’estate da ogni angolo del globo sono arrivate notizie fantastiche sui trionfi sportivi: i talenti sportivi italiani si stanno andando affermando in un numero sempre maggiore di sport. Da Wembley sono partiti i festeggiamenti per l’Europeo di calcio, per gli Azzurri gloria ritrovata dopo un decennio e mezzo. Oltreoceano, a Washington D.C., si festeggiano le gesta del diciannovenne altoatesino dei miracoli Jannik Sinner, ora numero 15 del ranking, diventato il più giovane di sempre a vincere un torneo ATP 500. Qualche settimana prima, non sul cemento ma sull’erba di Wimbledon, era stato Matteo Berrettini a fermarsi solo davanti alle mostruose prestazioni di Novak Djokovic e a portare in alto il nome dell’Italia nello sport.
L’evento forse più particolare, tuttavia, sono state le Olimpiadi dei record della delegazione italiana: quaranta medaglie, la riscoperta di un’Italia dominante nell’atletica, l’abbraccio tra Jimbo Tamberi e Marcell Jacobs, e ancora tra Tamberi e Mutaz Bashim, il saltatore qatarino con cui Marco ha condiviso la medaglia nel momento forse più bello dell’Olimpiade. Quaranta momenti di gloria sportiva, dove la sorpresa si è mischiata alla rivalsa, come per l’argento della trentunenne Ferrari nel corpo libero della ginnastica o per le due medaglie di Gregorio Paltrinieri, la cui Olimpiade sembrava finita a causa di una mononucleosi a poche settimane dai Giochi.
Nel medagliere italiano, il migliore di sempre e il primo a superare il mito dei diciassettesimi Giochi del 1960 tenutisi a Roma, ogni stella brilla allo stesso modo. Tuttavia, come già succede da quasi cento anni, ancora oggi ci si stupisce al suono di nomi dal suono non esattamente italico elencati come parte della squadra. E così, prima della cerimonia d’apertura la polemica aveva investito una delle più forti pallavoliste al mondo, Paola Egonu, esclusivamente per il suo cognome poco italiano e le sue fattezze non caucasiche, pur essendo una veneta DOC, cittadellese di nascita. Durante i Giochi, poi, è toccato a chi è stato d’un tratto messo sotto la lente d’ingrandimento per motivi simili dopo aver vinto una medaglia.
Tra le farfalle della ginnastica ritmica laureatesi a Tokyo con un bronzo olimpico c’è Daniela Mogurean. Nata nella capitale moldava Chișinău, a Mogurean per essere considerata veneta non manca decisamente niente, avendo iniziato a praticare il suo sport nella sua Mestre a 7 anni ed essendosi trasferita a Padova sette anni più tardi, da adolescente. Oggi ha vent’anni.
Abraham “Abramo” de Jesus Conyedo Ruano, cubano naturalizzato italiano, ha riportato anche lui un bronzo a casa. Nel 2019 ottenuto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella la cittadinanza per meriti speciali nella lotta libera, a seguito di una delibera del Consiglio dei Ministri. Nella migliore tradizione degli oriundi che sin dagli anni Trenta del secolo scorso, latinoamericani di nascita, che facevano valere le proprie doti con la nazionale italiana. Siamo partiti con la storia di Raimundo Orsi, Omar Sivori, Juan Alberto Schiaffino, José Altafini, Santiago Dallapè, Mauro German Camoranesi, Mario Gigena, Ariel Filloy. Abbiamo già festeggiato Jorginho, Emerson e Toloi all’Europeo. Perché non fare lo stesso per Abramo?
Le pagine dei giornali si sono riempite, poi, per i velocisti campioni dei 100 metri in staffetta: Fausto Desalu e, soprattutto, per il fulmine Marcell Jacobs, vincitore di un altro oro storico da singolo.
Il primo è nato a Casalmaggiore ma è cresciuto nella provincia di Mantova. I suoi record sono addirittura diventati italiani prima di lui: a 17 anni, quando i suoi documenti ancora lo classificavano come cittadino nigeriano tanto quanto i genitori, ad Aosta aveva realizzato il record italiano allievi dei 200 m ostacoli.
Di Marcell Jacobs già si sa tutto. Nato a El Paso, Texas, ma in diretta su Rai1 subito dopo la sua storica vittoria impariamo che di inglese mastica davvero poco.
Accanto queste storie di successo olimpico, però, va citata una storia dolorsa, che descrive in pieno l’assurdità della condizione di alcuni atleti italiani. Danielle Madam, nata in Camerun, in Italia da quando aveva 7 anni, si è laureata per ben cinque volte campionessa al livello nazionale nel lancio del peso. Non essendo però nata in Italia, pur essendo platealmente italiana per 24 anni si è vista negare un suo diritto, la sua identità. Ha ottenuto la cittadinanza solo a giugno, non in tempo per partecipare alle Olimpiadi.
Niente potrebbe descrivere quest’ingiustizia meglio delle sue parole: «Non avere la cittadinanza è una difficoltà in più, ti spezza le ali in partenza, non ti permette neanche di ambire a fare di più, in qualche modo ti fa smettere di crederci. Io ho fatto la mia battaglia, che per ora è stata vinta solo personalmente, ma l’augurio è quello di cercare di far passare il messaggio che c’è bisogno di una riforma, non solo per lo sport: l’attuale legge sulla cittadinanza non ci rappresenta più. Bisogna tener conto che noi esistiamo. Lo sport è un veicolo potente, anche per parlare di queste questioni. Spero a Parigi 2024 di riuscire a partecipare».
Non solo basta pochissimo a rendersi conto di quanto siano miopi discussioni, polemiche e battibecchi di fronte ad atlete e atleti italianissimi. Basta guardare a un dato semplicissimo per capire quanto analizzare quattro medaglie su quaranta (il 10% dei successi olimpici) sia a mala pena in linea con ciò che succede nella nostra penisola; sei milioni di persone (il 10% della popolazione, appunto) che vivono su suolo italiano, banalmente, non sono italiane. Ed è un dato che non tiene conto di coloro che già hanno attraversato un purgatorio inutile per ottenere la cittadinanza, gli italiani di seconda e terza generazione.
Tra proposte di ius soli sportivo (perché solo sportivo?), polemiche sull’integrazione di persone che di fatto sono già integrate e via dicendo si rischia di prendere brutte cantonate. Nel 2024, magari, penseremo solo a dolori e gioie sportive. E gli italiani proveranno a superarsi di nuovo.
La medaglia più bella non si vince, perché è un diritto: si chiama Italia.