di Guido Stazi
(foto di Gino Frongia)
Cinquemilacinquecento miliardi di dollari: è il valore complessivo alla Borsa di Wall Street, superiore al PIL della Germania, delle cinque grandi imprese tecnologiche americane protagoniste della data economy; in testa appaiate Apple e Microsoft con 1.400 miliardi di dollari di capitalizzazione ciascuna, Amazon con 1.070, Google 1.040 e Facebook a quota 590 miliardi. Recentemente sono stati diffusi i dati di fatturato e utile netto relativi all’ultimo trimestre 2019: per Apple fatturato nel trimestre a 91,8 miliardi di dollari e utile a 22,2 miliardi, Microsoft ricavi per 36,9 miliardi e utile a 11,6 miliardi, Amazon 87,44 miliardi di ricavi e 3,3 miliardi di utili, Google ha fatturato nel trimestre 46,08 miliardi conseguendo utili pari a 10,67 miliardi, Facebook ricavi per 21,1 miliardi e utili pari a 7,3 miliardi; per avere un’idea degli utili annuali, le cifre dell’ultimo trimestre vanno sommate ai risultati degli altri tre report trimestrali dell’anno fiscale 2019. Volendo compiere questo esercizio (i dati definitivi saranno certificati con i bilanci consuntivi nei prossimi mesi) troviamo Apple a quota 63,7 miliardi di dollari di utile annuale, Microsoft a 40,8 miliardi, Google a 33,6 miliardi, Facebook a 20,4 miliardi e Amazon a 11,6 miliardi; per un totale di 170,1 miliardi di dollari che all’incirca potrebbe essere l’utile di queste grandi imprese conseguito a livello globale nel 2019. L’utile d’impresa è il dato che in ogni sistema fiscale costituisce la base imponibile per la tassazione aziendale (in verità quelli evidenziati nelle trimestrali sono utili netti e quindi già al netto delle, poche, imposte previste in bilancio), questo principio vale per tutte le imprese, ma sembra valere meno per le grandi piattaforme tecnologiche che, ascese in una sorta di empireo digitale, costituiscono l’oscuro, ma difficilmente raggiungibile, oggetto del desiderio delle agenzie fiscali di mezzo mondo. Il tesoro Big Tech, che cresce di anno in anno (qualcuno stima tra i 3.000 e i 4.000 miliardi di dollari la liquidità e le immobilizzazioni finanziarie custodite nei loro forzieri), viene posto al riparo delle rivendicazioni fiscali degli Stati, grazie anche alla componente immateriale e transnazionale delle loro attività, con una serie di accorgimenti e con la disponibilità e l’accoglienza di altri Stati in veste di paradisi fiscali. Comunque, anche se in ordine sparso, il tentativo di inchiodare alle loro responsabilità di contribuenti viene effettuato da più parti: l’Internal Revenue Service, l’agenzia delle entrate statunitense, ha qualche giorno fa citato per 9 miliardi di dollari Facebook ritenendo elusiva la pratica di far confluire i profitti nella controllata irlandese; pratica peraltro diffusa, come dimostra la decisione di un paio di anni fa della Commissione Europea di intimare ad Apple di restituire allo Stato irlandese 13 miliardi di euro di imposte non pagate, decisione impugnata dall’Irlanda che lamenta una interferenza di Bruxelles nella sua sovranità di….paradiso fiscale; il fisco inglese ha calcolato che nel Regno Unito Apple, Google, Facebook e Microsoft hanno conseguito utili per 8 miliardi di sterline nel 2018, pagando solo 238 milioni in tasse invece dei 1.300 miliardi dovuti; in Francia e in Italia si è scelta la strada dei concordati, per sanare a forte sconto controversie fiscali risalenti: in Francia l’anno scorso a saldo di una contestazione quinquennale Google pagherà 965 milioni; in Italia nel 2017 l’agenzia delle Entrate ha chiuso accordi relativi a contestazioni pluriennali con Apple per 318 milioni, Google per 306 milioni e Amazon per 100 milioni. L’Ufficio Studi di Mediobanca ha fotografato la contribuzione a regime nel 2018: Microsoft ha versato imposte in Italia per 16,5 milioni di euro, Apple 12,5 milioni, Amazon 6 milioni, Google 4,7 milioni e Facebook 1,7 milioni. Cifre evidentemente risibili, derivanti, secondo Mediobanca, dall’utilizzo di meccanismi di trasferimento della gran parte dei fatturati realizzati in Italia verso Paesi con aliquote fiscali molto basse o nulle. Che fare dunque? In alcuni Paesi, tra cui l’Italia, è stata inserita nella legislazione fiscale una Web Tax, derivata da due proposte di direttive del Consiglio UE e una raccomandazione della Commissione del 2018, molto ben fatte ma non ancora approvate per la contrarietà, guarda caso, di Irlanda, Olanda e Lussemburgo, cioè i Paesi UE con legislazioni fiscali acchiappa-imprese. La proposta europea è degna di grande rilievo perché introduce un principio nuovo a giustificazione di un’imposta -del 3%- basata sui ricavi di alcune tipologie di servizi digitali: queste attività si caratterizzano per il contributo essenziale al business degli utenti, che per la loro interazione con i dati e i servizi digitali, creano essi stessi valore e ricavi per le imprese; e quindi il loro posizionamento in un paese, segnalato dai dispositivi che usano, è decisivo per l’attribuzione dei ricavi a fini impositivi. Le normative Web Tax dei Paesi apripista sono comunque ancora non operative per problemi tecnici e, soprattutto, politici, viste le recenti, durissime, minacce di ritorsione a base di dazi doganali dell’Amministrazione Trump, che ritiene queste imposte discriminatorie nei confronti delle Big Tech americane. Qualcosa sta cambiando anche per Irlanda e Olanda: a partire dal 1° gennaio 2020 Google ha reso noto che semplificherà la propria struttura aziendale e concederà in licenza la sua proprietà intellettuale dagli Stati Uniti e non più dalle Bermuda, sancendo così la fine della pratica chiamata Double Irish/Dutch Sandwich, cioè una triangolazione dei proventi tra le sedi di Google in Olanda, Irlanda e Bermuda che consentiva, legalmente e non solo a Google, di evitare il pagamento delle imposte in Europa. L’Amministrazione Trump sta quindi richiamando in patria, ruvidamente ma offrendo protezione, le imprese più potenti e profittevoli del nostro tempo. Generando potenziali conflitti, in quanto viene messa in discussione la potestà di tassare i ricavi generati in Europa e cioè la nostra sovranità fiscale. La progressiva digitalizzazione dell’economia renderà non più rinviabile la ricerca di una soluzione che eviti uno scontro, tra Europa e Stati Uniti, del tutto inedito nel mondo occidentale, con Russia e Cina spettatori interessati. La tregua e, auspicabilmente, una soluzione, può essere trovata in sede OCSE dove da cinque anni un tavolo multilaterale lavora a una definizione condivisa di imposta digitale. Lo scorso 31 gennaio è stato preso l’impegno di chiudere i lavori entro l’anno in corso, vedremo. A ulteriore testimonianza della centralità economica e strategica della data economy, dopo il progetto di acquisizione – per 27 miliardi di dollari- da parte di London Stock Exchange di Refinitiv e cioè della società che detiene il maggior numero di dati al mondo di carattere finanziario, l’altra grande Borsa mondiale, New York Stock Exchange, avrebbe in animo di presentare un’offerta di acquisto per eBay, una delle prime piattaforme di compravendite online, per 30 miliardi di dollari. Le grandi borse valori, avendo il privilegio di osservare da vicino le straordinarie performances delle grandi imprese digitali, capiscono che quello è il treno da prendere per mantenere un ruolo di primo piano nella finanza, che sarà sempre più Fintech, e più in generale in un ecosistema digitale che rischia di essere dominato da poche grandi imprese. Problema che, finalmente, si vanno ponendo anche le autorità antitrust statunitensi che hanno chiesto, a chi se non a Google, Amazon, Microsoft, Apple e Facebook, informazioni su tutte le acquisizioni effettuate dal 2010 e non passate al vaglio della Federal Trade Commission. Perché va bene riportarle a casa a fini fiscali, ma negli USA sta tornando in auge il pensiero di uno dei padri dell’antitrust americano, il Giudice Brandeis che nel 1912 affermava che “se non c’è una regolamentazione della concorrenza, i suoi eccessi porteranno alla distruzione della competizione e i monopoli prenderanno il suo posto” e “la maledizione della grandezza è una minaccia alla libertà individuale, principio fondativo della nazione americana”. E della civiltà occidentale. (riproduzione riservata)