Fabio Raspadori, docente di Diritto dell’Unione europea Università degli Studi di Perugia

Una difesa comune europea sarebbe auspicabile e ci farebbe risparmiare molto. Ma ha senso riarmarci fino ai denti, rinunciando al welfare e alla pace? Il testo che segue è pubblicato anche sul Numero speciale del 16 dicembre 2023 dell’edizione cartacea La Nuova Europa

 

Nella storia ci sono stati diversi tentativi di unificare l’Europa. Il primo, quello romano, in realtà prescindeva dall’idea stessa di Europa, tanto che città oggi africane (Alessandria, Cartagine) e asiatiche (Efeso, Antiochia) erano considerate parte del “salotto buono” dell’Impero.

Chi davvero ha provato a fare l’Europa unita, creando un impero che corrisponde grosso modo al nucleo originario dei paesi che diedero vita alla CECA, è stato Carlo Magno.

Poi è stata la volta di Napoleone, che puntava a rendere l’intero continente, compresa la Russia, qualcosa che assomigliasse molto alla Francia dei philosophes.

Quindi il momento più buio si è avuto con il Terzo Reich nazista, che pensava all’Europa come un grande campo di concentramento dominato dalla razza ariana.

Queste quattro vicende storiche hanno una cosa in comune, una sola: creare l’Europa unita – o almeno qualcosa di simile – attraverso le armi. L’idea era quella di dare vita ad uno spazio di convivenza che comprendesse popoli ed etnie dell’intero continente, retto da regole comuni che però venivano dettate ed imposte da un popolo conquistatore, che si poneva al comando dell’intera Europa.

A partire dagli anni ’50 del secolo scorso ha avuto origine un nuovo processo di unificazione, il quinto. Questo però si distingue dai precedenti soprattutto per un aspetto: a differenza di quanto si è detto per l’Impero romano, quello carolingio, l’epopea napoleonica e l’aggressione nazista, l’Unione europea ha come obiettivo integrare i popoli del vecchio continente senza ricorrere alla forza militare ed al controllo poliziesco.

Per la prima volta nella storia non solo europea, ma del mondo intero, il percorso di unificazione comunitaria, concepito da Altiero Spinelli e Jean Monnet, parte da una dichiarazione di intenti liberamente condivisa da un gruppo di paesi sovrani ed aperta ad altri che vorranno aderirvi. Una dichiarazione che non ha al suo centro la forza militare ed il predominio culturale, bensì dei valori ed un progetto di prosperità e benessere da costruire insieme.

E stranamente, sorprendentemente, da quella Dichiarazione, passata alla storia come Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 e confluita poi nei Trattati di Roma del 1957 ed ora nel Trattato sull’Unione europea, quella Dichiarazione ha dato avvio ad un processo che da un nucleo originario di 6 paesi oggi ne conta ben 27. Tutti entrati liberamente e che altrettanto liberamente hanno la possibilità di uscire da questa entità sovranazionale (cosa che ha fatto la Gran Bretagna).

Si tratta di un’impresa eccezionale, che si può definire a buona ragione rivoluzionaria: unificare ed espandere un’area di regole e principi comuni senza contare sulla forza.

Oggi questa strepitosa avventura, di cui ancora in troppo pochi hanno colto la portata innovativa, sembra essere posta in discussione soprattutto per due ragioni.

La prima è la sua presunta non democraticità, la seconda è l’incapacità della UE di difendersi militarmente.

Riguardo alla prima, ci limitiamo a sostenere che oggi in Europa la sola vera sovranità popolare possibile è quella che può garantirci l’Europa unita. L’unica in grado, in un mondo globale, di tutelare per tutti i piccoli stati del continente, valori quali: la pace, lo sviluppo sostenibile, i diritti umani. E l’unica capace di garantire che principi come lo Stato di diritto e la legalità democratica non siano in balia di avventurieri del consenso elettorale.

Relativamente alla capacità di difesa, di cui si parla molto in questi ultimi anni, flagellati dall’aggressione russa all’Ucraina e ora dall’attacco di Hamas ad Israele, l’Europa sarebbe inesistente.

Come affermato in un recente contributo di Angelo Panebianco, l’Unione europea per esserci dovrebbe spostare “una parte consistente di risorse dal welfare al warfare [..] significa in secondo luogo, dotarsi di un «centro» legittimato ad impiegare la forza [..] per fronteggiare qualunque predatore volesse aggredirci”. (A. Panebianco, Il lungo sonno, in “Corriere della Sera” del 22/10/23, p. 1-28)

Si tratta di una vecchia questione, che si stempera nel naufragio della CED (Comunità europea di difesa) degli anni ’50. Secondo molti, tra cui Panebianco, l’Europa non potrà mai contare veramente, né tantomeno identificarsi come soggetto comune, se rimarrà priva di un’autonoma capacità di autodifendersi e continuerà a contare sulla protezione della NATO a trazione americana.

Questa concezione personalmente non mi ha mai convinto e continua a non convincermi anche oggi nei tempi difficili in cui viviamo.

Se per esistere come soggetto autonomo è necessario disporre di un consistente arsenale di armi atomiche e spendere una quota di circa il 4% delle proprie ricchezze in spese militari (come accade negli USA), questo vuol dire abbandonare l’approccio integrazionista che conosciamo e spostarci verso una concezione di tipo imperialista, ispiratrice dei precedenti tentativi di unificazione europea.

Questo non significa che la scelta giusta sia quella di smilitarizzare il continente. Una difesa comune europea sarebbe auspicabile e ci farebbe risparmiare molto. Ma ha senso riarmarci fino ai denti, rinunciando al welfare e alla pace?

La forza dell’Europa dal secondo dopoguerra ad oggi, ciò che ne fa un soggetto rispettato e ammirato nel mondo intero, sta altrove. Nella sua capacità di integrarsi dopo un passato di rancori e conflitti, nel suo modello di sviluppo sostenibile, nel welfare diffuso, nella redistribuzione delle ricchezze e nella sua politica di sostegno allo sviluppo dei paesi più poveri del mondo. Sono questi gli asset da rafforzare ulteriormente e rendere più efficaci sul piano interno ed esterno.

La pace nel mondo, una pace solida e duratura, non si costruisce con le minacce militari. Per difendersi è sufficiente un esercito moderno e tecnologico, non serve un’ulteriore superpotenza. Oggi se si vuole soggiogare militarmente un popolo anche di ridotte dimensioni demografiche, è necessario annichilirne il territorio e dare vita ad un’ecatombe umanitaria. Entrambe opzioni che non sono percorribili se non si vuole incorrere nella riprovazione universale e impossessarsi di un territorio disastrato e abitato da superstiti ostili. Le tristi vicende dei nostri giorni in Ucraina e Palestina sono lì a ricordarcelo.

Para pacem, para bellum dicevano i latini e abbiamo visto come è andata a finire. Per imparare dalla storia raramente si deve imitare, il più delle volte è necessario innovare.