Il tre per cento è morto e anche Maastricht non si sente tanto bene. Il vincolo del rapporto tra deficit e Pil non è servito a contenere la spesa, non ha imposto una riduzione del debito, sostanzialmente ha fatto proliferare metodi per aggirarlo, come accade a tutti i tetti imposti dall’alto. E così, a sessantuno anni dal Trattato di Roma, che di Maastricht è il padre, la maggioranza degli europei non è più europeista e ritiene tutto ciò che è derivato da quella storica firma qualcosa di vecchio, superato, se non odioso. Come appunto la percentuale inventata dai saggi di Mitterrand che diventa paradigma di un fallimento.
Quasi tutti i risultati elettorali nei paesi dell’Unione, ma più di tutto il clima che si respira in quel che resta dei partiti, dei corpi intermedi della società, indicano che l’Europa e quel tipo di progetto che partiva dai legami economici per armonizzare le diverse istanze dei popoli, non convincono più. Non è stata una frana improvvisa, ma uno smottamento ineluttabile. L’Unione sembra un Titanic alla deriva in cerca di un iceberg su cui schiantarsi, quando ci sarebbe ancora tempo per cambiare rotta. Ma gli euroburocrati di Bruxelles pensano a mandare ancora letterine sui conti pubblici, garantire semmai po’ di flessibilità ai futuri inquilini di Palazzo Chigi, suonando sempre la marcetta dell’austerità di bilancio, che non incanta più nessuno, anzi diventa un drappo rosso per chi vuole infilzare quanto è stato costruito dal 1957. Persino una persona autorevole quale Mario Draghi, cui si deve la forza dell’euro e la sua sopravvivenza, quando parla di occupazione tornata ai livelli pre-crisi deve ammettere che un posto di lavoro nel 2008 era a tempo indeterminato nella maggioranza delle assunzioni. E fa sorridere la mano tesa all’Italia del commissario agli Affari Monetari Pierre Moscovici o il maggior tempo concesso alla stesura del Def, documento che di definitivo ha ormai solo l’acronimo. Il problema è politico e lo si affronta ancora con le lenti del ragioniere.
Oggi tutti individuano, a torto o a ragione, nella precarietà delle condizioni salariali il male oscuro della società e addebitano proprio all’Europa questa patologia, anche se evidentemente c’entra tantissimo l’avvento della digitalizzazione in molti settori industriali e un ritardo competitivo rispetto ai colossi del web. Si è risposto a questi disagi che si sono riverberati nelle urne italiane e non solo, agitando numeri e statistiche che dimostrerebbero che si è usciti dalla crisi. Forse è vero, dal punto di vista strettamente statistico, ma se ne è usciti profondamente cambiati, consapevoli che non sarà la partecipazione all’Ue a migliorare le proprie condizioni di vita e che i propri governi nazionali poco possono fare se non erigere barriere e dazi come risposta alla globalizzazione. Per questo dilaga il neo nazionalismo nelle scuole, nei dibattiti sui media, sulle pagine dei social, mentre nei palazzi comunitari si litiga soprattutto sulle poltrone da segretario generale della Commissione, si nega, con un voto del Parlamento di Strasburgo, la possibilità di creare delle liste transnazionali utilizzando i posti lasciati liberi dagli inglesi, ci si spartiscono le caselle dei prossimi commissari, destinando il grosso come al solito a Francia e Germania, peraltro gli unici paesi ad avere ancora esecutivi euroconvinti. Ci si comporta come se tutto potesse andare avanti all’infinito e invece non c’è nessun nuovo illuminismo alle porte, nemmeno Macron può fare qualcosa. Questo straordinario contesto di sistema anti-europeista, condotto proprio da chi dovrebbe dare un senso a quello che fa, produrrà così una slavina senza precedenti alle prossime elezioni comunitarie del 2019, a questo punto decisive anche per le sorti del mercato unico.
Il quadro d’altronde è disarmante, vacilla anche il più inguaribile degli ottimisti spinelliani. Ad Est, al comunismo di una volta si è sostituito un sovranismo deciso, fatto di patria, fondi comunitari e fili spinati, con il sostegno dei governi. Ad Ovest, in molti paesi fondatori, sconfitti gli esecutivi di centro sinistra euro-ortodossi, mietono consensi i partiti di destra e le nuove formazioni identitarie, che hanno intercettato quel bisogno di sicurezza e di riduzione delle disuguaglianze che nessuno a Palazzo Berlaymont si è mai curato di prendere seriamente in considerazione come un dato che lo riguardasse. L’Italia a questo punto è solo l’ultima stazione di un treno che conduce al fallimento dell’Ue, la spina che può essere tolta ad un’Europa in coma o la scossa del defibrillatore che la rianima. La scelta sta a questo paese fondatore, perché in un modo o in un altro, nel nucleo storico dell’euro e dei suoi partner, l’allergia al righello di Bruxelles si è fatta sistema, si è istituzionalizzata, senza dover aspettare la visita pastorale dell’ideologo ripudiato da Donald Trump, Steve Bannon.
Nell’ex blocco sovietico, che subisce il rinnovato fascino della Russia, il fenomeno è diverso ma allo stesso modo disgregante. L’accostamento della xenofobia e dei pregiudizi razziali influenzano sia la formazione del pensiero giovanile che i governanti, in alcuni casi intenti a riscrivere la storia e a rimuovere gli antichi traumi del collaborazionismo con i nazisti. Accade un po’ ovunque. In Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria, Ucraina, Lituania, Croazia, tornano i vecchi vessilli e la bandiera azzurra stellata finirà per essere odiata come quella americana nel mondo durante la guerra nel Vietnam. E il dramma è che non c’è alcun motivo a giustificarlo.
I pezzi del puzzle sono così ormai tutti sul tavolo e compongono una vecchia cartina geografica: quella dei primi del Novecento. Ne può scaturire quello che si paventa da tempo in noiosi e deserti convegni sull’Europa: l’implosione dell’Ue e la sopravvivenza dell’euro. E il fatto che le istituzioni comunitarie continuino ad occuparsi di problemi marginali, aggrava la situazione e diventa uno straordinario acceleratore del processo di disintegrazione. Quello che c’era da fare si sa da almeno dieci anni. Servirebbe rilanciare un concetto di mercato unico vicino alle persone, di condivisione dei problemi e degli oneri dell’integrazione. Occorrerebbe una nuova politica migratoria, l’abolizione della regola che impedisce lo scomputo dal deficit delle spese per opere infrastrutturali, la condivisione del debito con un Tesoro unico invece di un tetto sul possesso dei titoli di stato, una vera Maastricht dei popoli, che cancelli quella che finora ha tenuto in piedi solo le architetture finanziarie, grazie al braccio armato del Fiscal Compact che in teoria dovrebbe essere rispettato. E invece a Bruxelles ci si occupa ancora degli sforamenti dei vari sistemi economici, che più diversi non potrebbero essere. L’Ue oggi è a più velocità. È divisa tra chi ha l’euro e chi no e tra chi utilizza il dumping fiscale per attrarre all’Est nuovi investimenti e chi i nuovi investimenti non li vede perché ha una tassazione al 50% e rispetta alla virgola la più strampalata direttiva europea. È separata tra chi ha utilizzato i fondi europei per crescere e uscire dall’immobilismo del socialismo reale e chi, soprattutto in Italia, i fondi non è nemmeno riuscito a spenderli. È diversa, perché c’è chi ha salvato le sue banche come voleva con soldi pubblici, proteggendo i risparmiatori e chi invece ha dovuto chiudere una decina di istituti di credito, avviando complesse procedure di indennizzo. Nessuna traccia dell’unione fiscale, della terza gamba dell’unione bancaria con la garanzia comune dei depositi e una vigilanza che non strozzi il credito, nessuna notizia di qualsiasi piano d’azione contro la disoccupazione giovanile, che dovrebbe accontentarsi dell’Erasmus.
Questi richiami erano tutti già attuali quando i sondaggi d’opinione indicavano ancora il bello sull’eurobarometro di 500 milioni di persone, adesso probabilmente sono diventate ricette che resteranno solo in qualche libro. Non si è stati capaci di raccontare il più lungo periodo di pace vissuto dal vecchio continente come vero fattore di sviluppo, perché in molti, e non solo a Bruxelles e Strasburgo, pensavano che fosse scontato amare una patria comune che non è mai nata e farsi governare da chi non è stato eletto. L’adozione forzata di questi valori ha provocato il grande rigetto. Ora l’Italia ha l’occasione storica di salvare il paziente, se ne sarà capace.