Manchester e Londra sono gli ultimi colpi di coda di un terrorismo jihadista in strategica ritirata oppure si tratta di un’altra fase di una ancora lunga campagna? Come dimostrano le difficoltà analitiche dell’intelligence britannica, gran parte dell’efficacia del contrasto risiede in una analisi precisa e circostanziata. Per rispondere dunque alla domanda iniziale occorre analiticamente porsi altre due domande. La prima è se ciò che succede oggi in Inghilterra e in Europa è direttamente legato a ciò che succede in Siria e Iraq, in particolare a Mosul e Raqqa. E la seconda, è se lo Stato Islamico sia in irrimediabile ritirata strategica oppure no. Dalla risposta a queste due domande dipendono fisionomia del nemico e individuazione precisa del terreno dello scontro. Per quanto riguarda la prima, potrebbe far rispondere in modo affermativo il fatto che siamo nel mese di Ramadan. Il Ramadan è il mese sacro dei mussulmani, che i jihadisti hanno propagandato come “shahr al-jihad”, il mese del jihad. Per tante ragioni specifiche, però, questa apparente patina unificante, rischia di trarre in inganno gli osservatori superficiali, non solo perché proclamare non significa effettuare, ma anche perché l’Inghilterra pare si sia insularizzata rispetto all’Europa non solo per la Brexit ma anche per le dinamiche jihadiste, che qui hanno una loro specificità almeno dal 2007, e che forse la Brexit ha solo accentuato. Del resto non è la prima volta che il mese di Ramadan è preso a pretesto per incitare al jihad, e non da oggi – ma almeno dal 2013 – il teatro europeo è stato indicato dal defunto portavoce dell’Isis Al-Adnani come terreno di conflitto. Nel caso inglese, dunque pare siamo in presenza di dinamiche più interne all’estremismo jihadista inglese – tradizionalmente forte – che a pressioni esterne, di una pericolosa e autonoma recrudescenza più che di una campagna inglese pianificata dall’Iraq. Ed allora il contrasto più efficace in questo caso è il controllo sociale interno più che quello delle linee telefoniche e dei social media all’esterno. Anche perché l’Europa è probabilmente ancora un teatro secondario per l’Isis, il cui baricentro è altrove. Ed anzi si sta spostando. Ma verso est. Perché è vero che l’Isis è sotto attacco a Mosul e in parte anche a Raqqa. Ma in occidente si tende a sovrastimare furbescamente le sue difficoltà. Sia per quanto riguarda la quantità di territorio perso, sia per quanto riguarda il numero di combattenti uccisi e di risorse disponibili. Del resto, dal lancio dell’offensiva per riprendere Mosul sono passati quasi otto mesi, e non è ancora finita. E l’Isis ha di certo perso territori nel Levante, ma ciò è in parte compensato da due fenomeni. Il primo è il rifluire dei combattenti dell’Isis da Mosul verso le province irachene ora in mano al governo di Baghdad. Di qui il grido di dolore dei governatori locali. Perché i fantasmi neri del Califfato lì stanno tornando e popolano di nuovo di incubi le notti. Anche grazie alle sciagurate repressioni – compresi stupri e saccheggi – condotte dalle truppe federali e dai paramilitari sciiti contro le popolazioni del triangolo sunnita iracheno. E ai bombardamenti della coalizione, le cui vittime civili e i bambini uccisi sono subito postati dai social dell’Isis. Il secondo fenomeno, come nei vasi comunicanti, è invece lo spostamento del baricentro dell’Isis verso Afghanistan e il sud-est asiatico. Dunque più un riposizionamento che un restringimento. In Afghanistan l’Isis è in grande spolvero: mercoledì scorso uno spettacolare e ardito attacco al protettissimo quartiere presidenziale e delle ambasciate ha fatto quasi 100 morti e centinaia di feriti, mentre sabato scorso un ulteriore attentato ha fatto 7 morti ad un funerale causato dal primo attentato. E questo malgrado, o forse proprio per sfida, alla superbomba che Trump ha lanciato in Afghanistan qualche settimana fa. Ma ancora più preoccupante di questa avanzata dell’Isis nel “Uilayat al Khorasan” (Afghanistan) è la conquista di una intera città nel sud delle Filippine, Marawi. Dove è stato issato il vessillo dell’Isis sul municipio e dove ancora l’esercito filippino non è riuscito a rientrare. Da dove nasce questa preoccupante flessibilità dell’Isis? In parte è genetica. L’Isis nasce come “Califfato di carta”, prima del balzo del 2013-14, e tale può tornare. In parte è frutto delle politiche sbagliate della Coalizione contro il terrorismo e dell’occidente, Trump in testa. Perché se il nemico n. 1 diventa l’Iran, e se l’obiettivo è quello di impedire che da Teheran si possa arrivare a Beirut, perché combattere l’Isis, che è l’unico blocco in mezzo? E non ha molto senso dal punto di vista della lotta all’Isis una fornitura di armi per centinaia di miliardi di dollari con l’Arabia Saudita, campione di quel sunnismo estremista che ha una degenerazione mutante nell’Isis, ambedue nemici dello sciismo di cui è campione l’Iran. Del resto la lotta all’Isis senza l’Iran non si può vincere. Perché in medioriente, al contrario che in matematica, invertire l’ordine dei fattori cambia eccome il risultato. E spesso senza rimedio.