Il bollettino dei vincitori e vinti di dieci anni di crisi spiega come si è arrivati a un punto di rottura tra le élite e la gente comune. Dal crack Lehman Brothers ad oggi il Pil della Grecia ha perso il 24%, quello dell’Italia il 6%, tutto il resto è andato meglio: Spagna +2%, Giappone +4,7%,Francia +6,7%, Germania +10,9%, Gran Bretagna + 11%, Usa + 14%, Irlanda +38%, Cina +120%. L’effetto dell’intelligenza artificiale farà sì che nel 2030 le ore lavorate negli Stati Uniti dei lavori fisici e manuali diminuiranno dell’11% (-16% in Europa occidentale) e del 14% in quelli intellettuali (-17% in Ue). Il boom ci sarà solo per il settore tecnologico (+60% negli usa e e+52% nel vecchio continente) e non andrà male il settore della cura sociale e della persona (+26% e + 22%).
La dittatura della turbo finanza, la mancanza atavica di competitività, l’avvento dell’economia digitale, la forza dirompente della robotica e indubbiamente l’austerity della troika applicata a Roma come a Atene, sono state tra le concause di questa faglia che si è aperta tra le varie economie e che sarà al centro delle prossime elezioni europee, sicuramente le più partecipate della storia dell’Unione.
Non c’è però in ballo solo la contrapposizione tra classi dirigenti e popolo come pensa il settimanale anglosassone ma è cruciale il rapporto tra new economy e old economy. La prima, viaggia alla velocità della luce grazie alla Rete, senza limiti, priva di freni o regolamenti che tengano. La seconda (la nostra), è imbrigliata da una serie di norme comunitarie che di fatto rendono impossibile la spesa per investimenti di ciascun paese dell’Eurozona, hanno costretto le banche a fare pulizia nei bilanci senza quegli aiuti statali così cruciali negli Stati Uniti – dove Donald Trump, sotto attacco proprio dalle élite, festeggia indisturbato record su record a Wall Street e a Main Street – reprimono ogni vero piano di ripresa. In sostanza, noi europei abbiamo troppe regole per una crescita già anemica, gli americani, i cinesi e gli indiani, hanno poche regole che permettono una crescita vigorosa.
Se sono troppe le variabili imprevedibili (oggi la crisi turca, ieri quella dei Brics domani l’Argentina in un valzer senza fine) occorre concentrarsi su ciò che sta andando bene nel mondo da almeno cinque anni, l’Internet delle cose, per capire se questo modello è utilizzabile in qualche modo anche nella vecchia Europa. La digitalizzazione di molti processi industriali e commerciali, decantata da Jeremy Rifkin, sta trasformando, anzi ha trasformato, la nostra comunità, anche nei rapporti più semplici: una persona autorevole come Mario Draghi è arrivata tempo fa a dare la colpa anche all’e-commerce se i prezzi non salgono come dovrebbero, alimentando la catena della domanda e dell’offerta.
Ma la questione è ben più complessa di un click che permette di bypassare gli esercizi tradizionali, mettendo in un angolo intere filiere economiche, come dimostrano gli ultimi straordinari dati sul commercio digitale che è cresciuto in Italia quasi del 10%, molto più di quello tradizionale. Una ricerca di Mediobanca R&S ha mostrato come le aziende internettiane (Google, Microsoft, Facebook, Amazon) capitalizzano molto sui listini ma fatturano e occupano di meno rispetto a colossi tradizionali manifatturieri quali Apple, General Electric, Johnson & Johnson, Nestlè. Significa che servono sempre meno dipendenti per creare più ricchezza. Più capitale e meno lavoro. E la ricchezza si crea molto più facilmente se si vive in quella parte di mondo dove non è in vigore il Fiscal Compact, la Federal Reserve stampa denaro e i nuovi Zuckerberg trovano facilmente finanziatori senza aspettare il piano Juncker o di chi verrà dopo di lui.
Non siamo di fronte a un rallentamento dell’economia, è solo il suo ‘naturale’ andamento, con cui ci dobbiamo confrontare. Forse anche il manifesto dell’Economist dovrebbe prendere atto che il tunnel da cui si doveva uscire è finito da un pezzo ma corriamo su una strada provinciale e non su un’autostrada a otto corsie. Il tema è fondamentale per alcuni comparti tradizionali, come ha dimostrato la battaglia sul copyright digitale al Parlamento Europeo e come sanno bene nel settore bancario, dove più che Fintech temono la banca che verrà di Apple, Google, Facebook o magari, Amazon, Alibaba, Microsoft. Tutto è possibile. Queste aziende transnazionali hanno un marchio potente, milioni di utenti, operatività e relazioni su scala globale. Come gli istituti di credito di una volta, insomma. E si muovono non per fare finanza come core business ma prima di tutto per trattenere i clienti nel loro spazio virtuale, utilizzando i loro dati personali come inconsapevole corrispettivo di un servizio.
Si badi bene, questo non è un ragionamento tecnofobico. Noi tutti ci avvantaggiamo della facilità di condividere una casa, un’automobile, un servizio alla persona, ma non si può negare che se questi giganti del web creano poco lavoro, ci sarà un impatto sul reddito disponibile e dunque anche sui consumi. Con diretta conseguenza per Pil, debito e old economy. Il modello che gli Stati Uniti Digitali, inteso come gli over the top, stanno imponendo a tutti (nel 2020 il 40% dei lavoratori negli Usa sarà autonomo) è quello della flessibilità del lavoro e della massima remunerazione del capitale in un contesto di nuovi monopoli. E in questo scorcio di secolo, noi europei abbiamo purtroppo fatto una scelta fatale: sono state imbrigliate le spese degli stati e bloccate le opere pubbliche, mentre gli americani hanno lasciato liberi entrambi. Non tutto è perduto, basta avere chiaro questo quadro d’insieme.
Il capitalismo della Rete ha creato spazi inimmaginabili per i consumatori, la concorrenza e la creazione di plusvalore ma ha anche reso possibili nuove rendite di posizione. Lo stesso cittadino si è fatto mercato, diventando fattore propulsivo dell’economia condivisa, carburante per i colossi digitali e in ultima analisi anche causa della sua possibile disoccupazione. Ripartire da lui sarebbe la più grande delle rivoluzioni liberali.