di Guido Stazi

 

“Ogni nuova tecnologia esercita su di noi una lusinga molto potente, tramite la quale ci ipnotizza in uno stato di narcisistico torpore. Difatti, una totale immersione nelle logiche mediali può condurre, inconsapevolmente, l’uomo ad una condizione di “idiota tecnologico”, ovvero una sorta di narcosi ed intorpidimento in grado di far perdere di vista la realtà. Se non abbiamo gli anticorpi intellettuali adatti, questo capita appena ne veniamo in contatto, e ci porta ad accettare come assiomi assoluti le assunzioni non neutrali intrinseche in quella tecnologia”. Questo è un passo tratto dal fondamentale libro di Marshall McLuhan, Understanding Media. The Extensions of Man, pubblicato a New York nel 1964.
McLuhan è stato il più grande studioso ed esperto di mezzi di comunicazione di massa del secolo scorso. Morì nel 1980 quando internet era ancora un esperimento segreto, chiamato Arpanet, del Pentagono; ma aveva già immaginato e previsto tutto nei suoi scritti. Come ad esempio la metafora del “villaggio global” adottata da McLuhan per indicare come, con l’evoluzione dei mezzi di comunicazione il mondo
sia diventato improvvisamente più piccolo e i suoi abitanti tendano ad assumere, nel bene e nel male, i comportamenti tipici di un villaggio. Il mezzo cui si riferiva McLuhan era la televisione, ma la sua analisi si attaglia in modo incredibilmente appropriato e preveggente alla rete e ai social del nostro tempo.
L’espressione icastica “il mezzo è il messaggio”, che rende in estrema sintesi il pensiero di McLuhan, indica che il messaggio che ogni mezzo di comunicazione trasmette è insito nella natura stessa del mezzo di comunicazione ed è quindi la sua struttura comunicativa che lo rende non neutrale, perché suscita negli utenti, riuniti in una sorta di villaggio globale, reazioni, comportamenti e modi di pensare, che
possono essere indirizzati e determinati dal mezzo stesso e da chi lo controlla, tendendo ad una progressiva e pericolosa omologazione, a fini commerciali, sociali e, in definitiva, politici. A questo proposito occorre distinguere la rete, internet, dalle grandi piattaforme digitali che ne hanno fatto il più innovativo e redditizio business della storia contemporanea, e che forse ci stanno rendendo un po’ tutti degli (utili) idioti. Le grandi imprese digitali hanno saputo identificare sapientemente la propria
narrazione con quella dell’era digitale, di cui sono stati gli straordinari corifei ma anche i massicci beneficiari; vista anche l’inerzia delle istituzioni a tutela del mercato, a cominciare dalle autorità antitrust degli Stati uniti, che ha contribuito non poco a offrire un ombrello di legittimità alla proliferazione del monopolio digitale. E quindi, in verità, stiamo tornando in una era neo-feudale, seppure di “tecno-feudalesimo”, nel quale, in cambio della esaltazione dell’economia digitale, lasciamo
che venga estratto il valore di mercato dai nostri dati e dalla nostra attenzione liberamente concessa, in un contesto di dominanza algoritmica, che ci rende catalogati, trasparenti e prevedibili; dove la soggettività di ciascuno diviene oggettività mercificata e lasciata alla mercé dei giganti digitali.
Che, come noto, di dati vivono e commerciano; secondo un’inchiesta del New York Times dello scorso dicembre, Facebook, sulla base di alcune partnership commerciali avrebbe fornito dati ad Apple, Amazon e Netflix. In particolare avrebbe consentito ad Apple l’accesso ai contatti Facebook degli utenti e alle voci di calendario. Ad Amazon i nomi e le informazioni di contatto degli utenti. A Netflix di leggere i
messaggi privati degli utenti. Però, si dice, non è vero forse che la stragrande maggioranza dei servizi digitali sono offerti a prezzo zero? No, non è vero. Quello della gratuità è un mito ingannatore, una
promessa non mantenuta e un miraggio. I consumatori pagano sotto forma di attenzione, dati e rinuncia alla privacy, le nuove monete circolanti nell’economia digitale.
«Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi – scriveva Marshall McLuhan in Understanding Media- e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre» A soffrire sono anche altri parametri non di poco conto, come ad esempio la qualità dell’informazione, la diversità culturale, la diffusione delle opinioni su temi
economici e politici. Le piattaforme digitali favoriscono la polarizzazione delle opinioni sotto forma di una nuova e pericolosa tribalizzazione, indulgendo nella propagazione del pregiudizio cognitivo, producendo un effetto eco che amplifica e ratifica le convinzioni sottraendole al test della dialettica. Internet è un mezzo che agisce sull’emotività più che sulla razionalità deliberativa:
chi naviga cerca l’asseverazione dei suoi giudizi a priori (o appunto pregiudizi), piuttosto che schiudersi alla messa in discussione della propria visione in dialettica con altri punti di vista. Sorprende che si accetti supinamente la enfatizzazione delle credenze soggettive attraverso il filtro tecnologico, all’insegna di un crescente conformismo collettivo e individuale, con buona pace del fabbisogno democratico per una loro costante messa in discussione. La politica si trasforma in uno sport nel quale le tifoserie si contrappongono senza la mediazione di quello spazio di confronto e di mediazione che è, o piuttosto era, la sfera pubblica. Uno spazio questo che abbisogna di tre requisiti per funzionare: l’esposizione a fonti
che non siano state scelte; la condivisione di esperienze comuni; l’attenzione per le questioni di politica e di principio, con l’aggiunta di un ampio spettro di valutazioni sulle stesse. Orbene, sulle macerie della sfera pubblica borghese dell’età classica – rappresentata dalla stampa, dalle televisioni, dai luoghi di incontro e confronto – prosperano i populismi che hanno trovato nel solipsismo della navigazione solitaria un potente amplificatore e alleato. Come se non bastasse, le piattaforme digitali sono divenute indispensabili al potere politico ben più di quanto lo fossero i monopoli di Rockefeller e della Standard Oil ai tempi dello Sherman Act. Più di ogni altro monopolio, le piattaforme tecnologiche incidono sulla formazione dell’opinione pubblica senza pagare alcun prezzo in termini di immagine o di accountability. Da una parte la retorica libertaria che ne ha accompagnato la crescita, dall’altra la percezione che si tratti di architravi necessarie dell’esistenza, ha creato una situazioni senza precedenti: prima ancora di conquistare il mercato, il monopolio ha conquistato le menti.