Da alcuni anni, piuttosto avidamente, leggo e consulto con grande interesse articoli, saggi e libri che riflettono sulle caratteristiche dei social network, sulle dinamiche della Rete, sulle conseguenze dell’uso e dell’abuso delle nuove tecnologie. Sull’argomento, ho collezionato testi di ogni tipo: reportage giornalistici, approfondimenti di esperti, ricerche empiriche, disamine impressionistiche, considerazioni filosofiche, sociologiche, economiche, politiche e scientifiche.Il mio interesse nasce dalla mia attività professionale e dalla mia esperienza di madre. Insegno italiano in un liceo scientifico e vedo, anno dopo anno, i miei studenti sempre più risucchiati dall’universo digitale; così come, a casa, i miei figli e i loro amici totalmente assorbiti dalla realtà virtuale: nello svago, nella comunicazione, nell’informazione, nelle relazioni affettive. Io stessa ho sperimentato, in passato, una forma di dipendenza dal mio smartphone, compulsivamente sfiorato in ogni momento per accedere a Internet, Facebook, Whatsapp e alla mia posta elettronica, preda di un’irresistibile attrazione per la dimensione immateriale del cyberspazio. E temo che questo accada sistematicamente a molte persone – bambini, adolescenti e adulti – tuttavia non sempre capaci di riconoscere e arginare le sirene di questo incantamento e stordimento digitale. Mi ha salvata, paradossalmente, una sferzata di quella violenta shitstorm che flagella quotidianamente la comunicazione digitale: un post xenofobo e razzista, condiviso sul mio profilo da una persona che conoscevo, mi ha spinto ad abbandonare Facebook e molti gruppi Whatsapp. Non volevo, non voglio, essere così facilmente sporcata dalla merda altrui. Dalle fake news che circolano in rete, dai commenti belluini, dai falsi sé che prolificano e dai tuttologi che pontificano, dai dementi che straparlano o che pubblicano le foto di quello che mangiano, del tatuaggio sulla chiappa, del nonno ebete che sorride, del gatto che dorme o del cane che piscia!
Lontana dal cyberspazio e dai suoi miasmi, ho osservato la solitudine dei suoi abitanti – amici, colleghi, studenti, figli, familiari – prigionieri del vortice di uno sciame in cui, solo apparentemente insieme ma in realtà condannati ad uno sterile individualismo, si dissolvono come figure dantesche; ho visto l’atrofia dei corpi – paralizzati davanti a uno schermo – e delle menti, essiccate da un continuum di immagini, di emoticon, di GIF che alimentano una comunicazione sincronica ed autoreferenziale senza pensiero, senza parole, senza sintassi, senza nessi logici, senza profondità; ho colto il furto del tempo, della cultura, dell’identità, dell’attenzione, dell’empatia, della memoria, della realtà, e ho compatito l’autoconfinamento degli individui digitalizzati in insignificanti ridotte narcisistiche, ove si illudono di interagire col mondo mentre si limitano a dare voce – ed eco – al loro piccolo io.
Disintossicata dal video, ho ricominciato a studiare in modo serio e sistematico, e ho scoperto che mentre, inconsapevolmente, navigando in questa nuova realtà virtuale che tanto più ci affascina quanto più ci fagocita, cediamo ogni giorno pezzi di noi a chi ne fa business e strumento di controllo – i nostri dati personali, trasformati in Big Data e metadati, profilati da algoritmi che definiscono modelli predittivi e comportamentali su cui le aziende e i decisori politici gestiscono il loro oligopolio, finalizzando i loro processi decisionali, tradotti in piattaforme, al controllo economico, politico e militare – ovvero al panopticon[1]foucaultiano prossimo venturo – anche il nostro cervello, e non solo la nostra mente, sta lentamente cambiando.
Da questo punto di vista, l’attenta lettura del libro della neuroscienziata Susan Greenfield,Cambiamento mentale. Come le nuove tecnologie stanno lasciano un’impronta sui nostri cervelli è stata davvero illuminante. Filosofia e neurobiologia si sono incontrate e mi hanno fornito nuove piste di riflessione, partendo dal semplice assunto suggerito da Greenfield: il cervello è un organo plastico, che si modifica nell’ambiente in cui è immerso. Le tecnologie digitali non sono semplicemente un nuovo strumento di comunicazione, tecnologicamente più avanzato dei precedenti; esse creano un ambiente nuovo, pervasivo e invasivo, in cui siamo totalmente immersi e nel quale non sono solo i nostri comportamenti o i nostri stili di vita a modificarsi, ma le nostre stesse strutture cerebrali.
Il pensiero è “un movimento confinato all’interno del cervello”, come ha affermato Oleh Hornykiewicz – il medico australiano che ha sviluppato il trattamento per la malattia di Parkinson – un movimento che rispetta tempi e modi di una catena sequenziale non casuale ma lineare, capace di effettuare collegamenti logici che arrivano anche a formulare concetti e parole astratte (e qui il riferimento allo splendido La specie simbolica di Terrence Deacon è d’obbligo[2]), dunque “se mettiamo il cervello umano, con il suo mandato evolutivo ad adattarsi all’ambiente circostante, in un ambiente dove non ci sono sequenze lineari ovvie, dove i fatti possono essere accessibili in modo casuale, dove ogni cosa è reversibile, dove la differenza tra stimolo e risposta è minimale, e, più importante di tutte, dove il tempo è breve, il treno dei pensieri può deragliare. Aggiungiamo anche le distrazioni sensoriali di un universo fatto di suoni e immagini onnicomprensive e vivide che incoraggiano una ridotta attenzione, e il risultato è che potresti diventare tu stesso un computer: un sistema che risponde efficientemente e che processa informazioni estremamente bene, ma che è privo di un pensiero profondo”.[3]
Guardiamoci intorno: all’esigenza di una diffusa e libera energia sociale, alla necessità di un dialogo reale, dunque dialettico e in corpore vili, tra una pluralità di soggetti che si incontrano e agiscono in una dimensione autenticamente collettiva, e che non siano espressione di un’eccezionale minoranza, corrisponde oggi una risposta inerte, una passività diffusa, un adattamento flebilmente critico – e più spesso compiaciutamente acritico – all’ineluttabilità dell’esistente, una inettitudine collettiva generata dall’inazione prolungata, dalla delega pigra con cui abbiamo sostituito la voce, il gesto, l’espressione critica con un I like cliccato su una tastiera o con un emoticon che qualcun altro ha stilizzato per noi, con un linguaggio binario povero e polarizzato, prigioniero di una sterile contrapposizione tra tesi e antitesi ma incapace di qualunque sfumatura dialettica. Ammaliati dalle sirene della comodità, della rapidità, della facilità di chi prima ci ha venduto le nuove tecnologie digitali e di chi poi ha venduto noi ai padroni delle tecnologie digitali, non ci siamo resi conto della posta in gioco: la perdita diffusa della nostra intelligenza intesa come capacità di comprendere, di fare inferenze, di stabilire una gerarchia di significati, di formulare concetti astratti, di elaborare una visione del mondo articolata, complessa, critica. Ovvero, della nostra libertà.
I nuovi strumenti digitali modificano la nostra mente e il nostro cervello. Isolandoci davanti a uno schermo (dove giochiamo, comunichiamo, studiamo, guardiamo film e video, ci informiamo, amoreggiamo, litighiamo, mimando nella finzione del mondo virtuale ogni perduta esperienza reale) perdiamo empatia e comprensione dell’altro, perdiamo affettività, perdiamo interessi, e acquisiamo di contro una rappresentazione del mondo sempre più stereotipata e standardizzata. Ci illudiamo di sapere più cose del mondo reale, mentre “ci aggiriamo dappertutto senza fare nessuna esperienza”.[4]
Dove possiamo trovare un antidoto? Dove possiamo creare gli anticorpi per difendere l’umanità e la vita vera? Un tempo avrei risposto, con fiducia: a scuola, sui libri, tra i banchi, nel dialogo tra studenti e con gli insegnanti, nello studio, nell’approfondimento critico, nella riflessione collettiva, nella lettura e nella scrittura.
Oggi, dopo due anni di “Buona scuola”, in cui ormai nelle aule le aziende e le tecnologie digitali la fanno da padrone, in cui le ore di studio in classe sono un mero avanzo dell’alternanza scuola-lavoro, in cui tutte le discipline e l’intero processo di costruzione dei saperi è un residuo subordinato al grande inganno dell’addestramento alle professioni, in cui l’incultura dei test a risposta chiusa prevale sulla rivendicazione di un pensiero liberamente critico e non conformista, anche l’ottimismo della volontà cede al pessimismo della ragione: i cervelli dei nostri ragazzi cambieranno rapidamente. E saranno molto presto perfettamente adattati al mondo disumano – popolato da droni, robot e replicanti – che si sta così velocemente stagliando davanti ai nostri occhi.
Anna Angelucci
NOTE
[1] Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino Einaudi 1993
[2] Terrence Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di cervello e capacità linguistiche, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2001
[3] Susan Greenfield, Cambiamento mentale. Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2016, p. 9
[4] Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Bologna, Nottetempo, 2016, p. 70