Per quasi 400 anni, l’Impero britannico ha gettato nel mondo le basi per la diffusione del proprio sistema economico, politico, della propria lingua e religione. Anche se non concepito da colonizzatori spinti a costruire una nuova vita al di là del mare, ma originato da “bucanieri” che volevano impadronirsi dell’oro spagnolo, come scrive lo storico Niall Ferguson, non è esagerato affermare che il mondo di oggi è in gran parte, nel bene e nel male, il prodotto dell’epoca imperiale britannica. Durante il regno di Giorgio V, nonno dell’attuale sovrana Elisabetta II, il Regno Unito raggiunse la sua massima espansione, vantando circa un quinto della popolazione mondiale e un quarto della superficie delle terre emerse.
Quando si parla di eredità dell’Impero britannico si è soliti dividersi tra chi ritiene che l’imperialismo abbia portato al razzismo, alla xenofobia e all’intolleranza e chi ricorda, pur riconoscendone i difetti, che nessuno stato colonizzatore abbia dato così tanto ad un popolo assoggettato.
Nel giugno di ottocento anni fa, un re inglese pose le basi dello stato di diritto e della democrazia: “Abbiamo anche concesso a tutti gli uomini liberi e consenzienti del nostro regno, per noi ed i nostri eredi di sempre, tutte le libertà sottoscritte, che essi ed i loro eredi ricevano e conservino, da noi e dai nostri eredi”. Questo si legge nella Magna Carta, un documento redatto nella sua forma definitiva dopo la morte del Re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra e che, nonostante le diverse modifiche subite nel corso dei secoli da leggi emanate dal Parlamento, rappresenta tuttora la Carta fondamentale della monarchia britannica.
Parto da qui, perché questo primo atto per il riconoscimento universale dei diritti dei cittadini, seppur nel quadro di un sistema feudale, esprime una serie di principi liberali, dal diritto all’economia al culto, che oltre a rappresentare oggi dei paradigmi di riferimento identitari delle nostre comunità – talvolta ahimè solo idealmente – hanno paradossalmente, soprattutto con l’idea della libertà, generato la tendenza dell’Impero britannico all’autoliquidazione. Per tornare a Ferguson, lo storico di Harvard afferma: “Quando una società colonizzata aveva adottato in modo sufficiente le altre istituzioni che gli inglesi avevano portato con sé, diventava molto difficile per gli inglesi proibire quella libertà politica alla quale attribuivano tanta importanza per se stessi”, e ancora: “non intendo dire che tutti gli imperialisti inglesi fossero liberali, anzi erano proprio il contrario. Colpisce però profondamente nella storia dell’Impero il fatto che, quando i britannici si comportavano in modo dispotico, dalla stessa società britannica scaturiva quasi sempre una critica in senso liberale”.
In una lunga storia di quasi 1.200 anni, con più di cinquanta sovrani e una decina di dinastie, fu durante la Seconda Guerra Mondiale che l’Impero britannico, assieme ai suoi alleati, diede il maggior contributo alla formazione di quel prezioso comune patrimonio ontologico a cui pensiamo, quando diciamo Europa.
Dopo la capitolazione di Parigi ad opera della Wehrmacht, tutte le grandi potenze democratiche erano state sconfitte e il Regno Unito rappresentava l’unico faro della democrazia in Europa. Londra, in quel momento la più grande città del mondo, era il centro dell’impero e il Fuhrer la sognava a pezzi. Re Giorgio VI, tramite la BBC, parlò così alla sua gente: “Siamo stati costretti a un conflitto, perché ci viene richiesto di affrontare la sfida a un principio che, se dovesse prevalere, sarebbe fatale per ogni ordine civile del mondo. È il principio che permette a uno stato, nel perseguimento egoistico del potere, di ignorare i trattati e gli impegni assunti solennemente; che sancisce l’uso della forza, o la minaccia della forza, contro la sovranità e l’indipendenza dei nostri stati. Se tale principio, la mera primitiva dottrina che la ragione è del più forte, dovesse affermarsi nel mondo, la libertà del nostro paese e di tutto il Commonwealth sarebbe in pericolo. Questa è la posta in gioco. Per amore di tutto quello che ci è caro, è impensabile che possiamo rifiutare tale sfida”.
Qualche anno dopo, nel famoso “discorso alla gioventù accademica” tenuto all’Università di Zurigo nel 1946, Churchill affermò: “Esiste un rimedio che… in pochi anni renderebbe tutta l’Europa… libera e … felice. Esso consiste nella ricostruzione della famiglia dei popoli europei, o in quanto più di essa riusciamo a ricostruire, e nel dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza ed in libertà. Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d’Europa”. Fu così che il principale fautore della coalizione antinazista si trasformò in un promotore attivo della causa europea.
Insomma a proposito di Brexit, visto che il sogno dei fondatori di questa neonata testata è quello di una Nuova Europa, se è quasi impossibile immaginare il mondo di oggi senza l’esistenza dell’Impero britannico, sarà mai possibile immaginare un Europa senza il Regno Unito?
Note sull’autore:
- cura e conduce per RadioRadicale la trasmissione serale “Spazio transnazionale” dedicata all’attualità internazionale e alla politica estera;
- si occupa con passione delle vicende di re e regine;
- ha scritto “Elisabetta II Regina” per i tipi di Aracne.