Sono circa 800.000 ma forse anche di più. Italiani ed europei di fatto ma non di diritto. Italiani ed europei perché nati nel nostro paese e dunque nell’Unione europea pur se da genitori stranieri, oppure perché arrivati bambini e cresciuti qui, nei quartieri in cui abitiamo e nelle scuole che frequentiamo, con i nostri figli. Tutti insieme, in classe e nelle gite scolastiche, nei parchi giochi e alle feste di compleanno, nelle palestre e nei campi di pallone. Parlano la nostra stessa lingua e i nostri stessi dialetti, anche se hanno un altro colore della pelle o tratti somatici diversi. Crescono e vivono qui, insieme a noi, ma li vogliamo considerare ostinatamente e pervicacemente stranieri. Non italiani e non europei, non cittadini del paese in cui vivono e in cui moltissimi di loro sono addirittura nati, ma ospiti. E talvolta neppure graditi.
È la posizione del centro-destra e del movimento 5 stelle, contrari all’approvazione del ddl che introduce il principio dello ius soli temperato e dello ius culturae attualmente in discussione al Senato dopo l’approvazione alla Camera due anni fa. Una posizione variamente giustificata lungo un continuum di motivazioni contrarie: dall’idea che approvare questa legge ora sia mera propaganda elettorale e che le priorità dell’Italia siano ben altre, al timore xenofobo che dare la cittadinanza ai bambini significhi mettere in mano ai loro genitori stranieri un’arma di ricatto nei confronti del nostro paese o addirittura provocare un’invasione di migranti. Posizioni politiche diverse, accomunate tuttavia dalla stessa volontà di non vedere quello che è davanti agli occhi di tutti noi: lo sguardo di 800.000 bambini e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con i compagni italiani e pur crescendo con loro, non sono cittadini come loro. Se nati in Italia, dovranno attendere fino al compimento dei 18 anni senza nemmeno avere la certezza di diventarlo; se arrivati qui da piccoli – e sono circa 150.000 – con la legge attuale basata sullo ius sanguinis, non lo diventeranno mai. Non diventeranno mai italiani, e non saranno mai cittadini europei. Pur essendolo.
È questo il modello di integrazione, di inclusione e di dialogo cui ci ispiriamo? Questo il nostro ideale di cittadinanza, un ideale ad excludendum basato su una discriminazione a priori? Questa la nostra interpretazione del mandato che l’articolo 3 della nostra Costituzione ci consegna quando recita che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali? O non sarà allora che è proprio per non garantire loro pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge che si vogliono mantenere in una condizione di palese subalternità 800.000 cittadini italiani di fatto ma non di diritto? Che li si respinge pervicacemente solo perché hanno un colore della pelle o tratti somatici diversi da quelli comunemente accettati nel nostro immaginario collettivo identitario, ormai così irrigidito su accecanti istanze securitarie da diffidare anche di quei bambini e di quei ragazzi che studiano e giocano ogni giorno con i nostri figli?
Noi dell’associazione La Nuova Europa non la pensiamo così. E tra due settimane con un gruppo di studenti italiani, bulgari e rumeni ci incontreremo a Ventotene per la prima edizione della Scuola d’Europa, organizzata insieme al Comune, pronti a confrontarci insieme sui temi dell’accoglienza, della solidarietà e del rispetto. Porteremo studenti da Roma, Pozzuoli, Catania, che si mescoleranno in un’unica classe con i loro compagni provenienti da Est e con le ragazze della scuola dell’isola, intitolata ad Altiero Spinelli. Porteremo Anastasya, ucraina, in Italia da 8 anni, maggiorenne senza cittadinanza; Laila, nata in Italia da una mamma peruviana e un papà egiziano, con cittadinanza peruviana; Radwa, nata in Italia da genitori egiziani, dunque non italiana; Jennifer e Alexia, filippine ma nate in Italia; Nicoletta, diciottenne rumena, in Italia da 14 anni ma non abbastanza italiana per la legge e per tutti coloro che, a torto, considerano meccanicisticamente nazionalità e cittadinanza un gene trasmesso col sangue piuttosto che la conquista preziosa di una dimensione affettiva, relazionale, psicologica e culturale.
Chi tra loro potrà a buon diritto essere considerato straniero? Nessuno. Sono studentesse e studenti italiani, bulgari, rumeni ma, soprattutto, sono studentesse e studenti europei. Il loro orizzonte è più ampio di quello della loro patria d’origine o d’adozione. Negare la cittadinanza italiana significa negare loro la cittadinanza europea, significa cancellare dal loro sguardo la possibilità di percepire il senso di appartenenza a un progetto ancora più ampio. L’Italia è il presente, l’Europa è il futuro. Negando loro la cittadinanza italiana, cancelliamo il presente e il futuro di 800.000 adolescenti.
Non approvando questa legge, il Parlamento italiano sceglierà arbitrariamente la cancellazione di un diritto soggettivo e collettivo. Ce lo dice, a gran voce, la società civile: una lettera-appello degli insegnanti (https://www.internazionale.it/opinione/franco-lorenzoni-2/2017/09/18/insegnanti-appello-ius-soli) – chiamati ad educare sui temi di ‘Cittadinanza e Costituzione’ anche quando a scuola, a tanti studenti, quella cittadinanza e quella Costituzione vengono negate – spiega con semplicità e chiarezza che non ci vuole coraggio per approvare una legge che finalmente sanerebbe un’ingiustizia conclamata.
Ci vuole coraggio a non farlo.
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