Chi parla e scrive di esercizio provvisorio ogni volta che si pensa finisca prima del previsto la legislatura, dimentica due cose fondamentali. Oggi, rispetto agli anni in cui i governi della prima Repubblica vi ricorrevano, non è praticamente possibile sforare il termine dell’approvazione della legge di bilancio perché ormai è incanalata in stretti binari comunitari e di fatto viene presentata prima a Bruxelles, per l’approvazione, che in Parlamento. In secondo luogo, la norma sull’esercizio provvisorio dei conti pubblici di fatto è una norma di contenimento della spesa, perché prevede per massimo un quadrimestre un taglio lineare del 30% di tutte le voci di spesa non obbligatorie, qualcosa che farebbe tornare subito i conti del deficit e sterilizzare lo stesso aumento dell’Iva nel 2018 da quasi 20 miliardi di euro.
Fatta chiarezza su un punto chiave di finanza pubblica, in vista delle prossime elezioni politiche è meglio concentrarsi su come davvero tagliare la spesa.
Tagliare la spesa significa soprattutto ridurre il debito, vero problema dei prossimi mesi quando finirà il QE della Bce; quindi, volendo evitare la madre di tutte le spending (l’esercizio provvisorio) sarebbe il caso di concentrarsi sul da farsi.
Le soluzioni per razionalizzare una spesa pubblica cresciuta di 300 miliardi di euro negli ultimi 15 anni, fino ad arrivare agli 820 miliardi attuali, sono sotto gli occhi tutti. Dal 1986 a oggi si sono succedute due Commissioni tecniche e otto tra Commissari e subcommissari, tutti si sono impegnati ma i risultati ancora non si vedono in modo concreto. Sul piatto sono rimasti dossier molto utili da cui si può ricavare una lista di 10 cose da fare velocemente per ricavare anche più dei 10 miliardi di euro l’anno che il governo aveva promesso per il 2016.
1: COSTI STANDARD NELLA SANITA’. Ormai è un must: la siringa che costa 10 al Sud e 100 al Nord. Come è possibile che una protesi tibiale costi 199 euro in alcune regioni e 2.479 in altre, con una maggiorazione dei costi del 1.145%? E come si spiega che un’anca in ceramica sia pagata da alcune Asl 284 euro e da altre 2.575, con una differenza dell’806%? Tutti i governi conoscono ormai alla perfezione quali sono le regioni dove si spende meglio e i conseguenti costi standard da applicare alle altre. Ci vuole la forza politica di imporre una soluzione nota a tutti.
2: COSTI STANDARD NEI COMUNI. Che poi la filosofia dei costi standard
potrebbe essere benefica anche se applicata a diversi organi di governo. Sono anni, per esempio, che si prova a farlo nei comuni. Per avere successo, però, sarebbe necessario che tutti gli 8 mila municipi facessero pervenire al Governo centrale dati di spesa storica per far capire chi ha speso meglio di altri e dedurne costi standard applicabili a tutti.
3: STAZIONI APPALTANTI. Oggi in Italia ci sono 35 mila centri di spesa. Un’assurdità, per uno Stato che spende circa 135 miliardi l’anno in forniture di beni e servizi. Anche questo tema è noto datempo, meno conosciute le formule per ridurne il numero a una trentina.
4: SOCIETA’ PARTECIPATE. Secondo il ministero dell’Economia sono 7.726. Per l’ex commissario alla spending review Cottarelli almeno 10mila. Comunque troppe. Sarebbe interessante rendere operative quelle norme che decretavano la chiusura dei tanti soggetti locali che hanno più amministratori che dipendenti e presentano almeno tre esercizi in perdita. Per lo stesso direttore del Fmi i margini di risparmio sarebbero tra i 2 e i 3 miliardi.
5: IMMOBILI PUBBLICI. L’Italia è proprietaria di un patrimonio immobiliare pubblico che vale 368 miliardi, almeno stando all’ultima rilevazione del Tesoro. Appare quindi piuttosto incomprensibile che lo Stato, considerando anche gli enti locali, paghi locazioni passive per circa 12 miliardi l’anno e non riesca a riappropriarsi dagli enti locali degli assets sciaguratamente devoluti in piena mania di federalismo.
6: TAX EXPENDITURES. In un sistema fiscale sano non possono coesistere centinaia di deduzioni e detrazioni che poi finiscono col non avere effetti. Nel 2011 l’allora sottosegretario all’Economia, Vieri Ceriani, censì 720 “tax expenditures”, ossia agevolazioni fiscali che in tutto drenano 250 miliardi di euro l’anno. Una montagna, che magari potrebbe diventare collina. Alcune agevolazioni sono sacrosante. Ma altre andrebbero analizzate in profondità perché forse possono essere eliminate senza traumi per nessuno.
7: AGEVOLAZIONI ALLE IMPRESE. Secondo l’economista Francesco Giavazzi, che fu collaboratore dell’ex Commissario Bondi, nel 2011 valevano 36 miliardi di euro. Per carità, non tutte sono inutili. Ma Giavazzi, incaricato dal Governo Monti, individuò un piano per tagliarne almeno 10 l’anno, visto che dalle ricerche gli stessi imprenditori affermarono che gli incentivi agli investimenti nel 76% erano inutili.
Il piano è rimasto nel cassetto, anche se pare che ogni tanto al ministero dell’Economia provino a resuscitarlo, senza esito.
8: PRESTAZIONI INAIL. Un corposo dossier ancora dell’indefesso Cottarelli ha poi acceso un faro sull’esistenza di ben 13 prestazioni erogate dall’Inail al costo di 5 miliardi l’anno. Accanto a quelle ineliminabili e sacrosante, come la “rendita diretta” o la “rendita a superstite”, ve ne sono alcune, a sentir lui, così polverizzate da rendere complicati i controlli e molto elevati i rischi di prestazioni indebite. Un giro d’orizzonte su questo tema sarebbe utile.
9: FONDI UE. Alla fine di ogni anno l’Italia perde per strada miliardi di fondi europei perché non riesce a pianificarne una spesa tempestiva. Questo è uno dei punti su cui si sono stati scritti più libri in assoluto. Forse è il caso di fare una spending review di questi libri, scegliere i più significativi, e applicarne le soluzioni.
10: EVASIONE E DEBITO. La prima non si mette mai in connessione con il secondo, ma l’evasione fa aumentare il debito come la pioggia fa nascere i funghi nel bosco. Insieme al taglio del debito, quello dell’evasione è la madre di tutte le battaglie, come è stati già sottolineato nei paragrafi precedenti. Gli ultimi dati sono sconfortanti. Nel 2014 il tax gap, ovvero la differenza tra le imposte che si dovrebbero pagare e quelle effettivamente incassate dall’Erario, si è allargato a 111,6 miliardi di euro da 108 miliardi del 2012. Dalle badanti alla bottega sotto casa, dalle costruzioni ai servizi per le imprese: questo divario fiscale oscilla tra il 20 e il 30%. Ed è particolarmente marcato proprio nei servizi alle famiglie, dove il sommerso è al 30%, per scendere poi al 26% nel commercio e nei pubblici esercizi, al 24% nelle costruzioni e al 20% nei servizi alle imprese. Nel solo 2014 emerge il buco di imposte pagate – rispetto al dovuto – si impenna quando in ballo ci sono i redditi del lavoro autonomo e d’impresa: per questa tipologia di Irpef il tax gap si attesta al 59%, mentre per il lavoro dipendente è al 4% e per l’Iva al 30%. Serve quindi una legge per punire gli evasori e premiare aziende e contribuenti onesti con una riduzione dell’imposte. Tra l’altro esisterebbe anche un Fondo Tagliatasse da alimentare con il recupero del maltolto. Questa è l’ingiustizia sociale più evidente in Italia, che la rende diversa da tanti partners europei e fa crescere appunto la spesa pubblica per tutti i servizi e lievitare il debito pubblico, che lo stato ogni anno deve contrarre.
Mettere in piedi una manovra complessiva di questo genere, prima del ricorso alle urne, farebbe vincere le elezioni a tutto il paese
In questo senso, va modificato il Fiscal Compact, la norma che impone la riduzione costante del debito pubblico di un ventesimo l’anno per la parte eccedente il 60% del Pil in due direzioni. Da una parte, nel recepire definitivamente come Trattato Europeo il Fiscal Compact occorre invocare, ai sensi dello stesso art. del Fiscal, una revisione delle regole sulla riduzione del debito. In secondo luogo, bisogna computare nella voce debito anche quella del debito privato. Se l’Italia ha il terzo debito pubblico al mondo non ha il terzo debito privato al mondo. Tutt’altro. Considerando il debito consolidato, l’Italia diventa un paese tra i più virtuosi. Non si può accettare che le norme sui salvataggi bancari facciano ricadere l’onere del salvataggio sui risparmi dei privati, quando il basso livello del loro indebitamento non viene considerato per stabilire la stabilità o meno di un intero paese.
Per rafforzare la partecipazione all’Unione Europea vanno poi finalmente completate l’Unione Bancaria (con la garanzia unica dei depositi) e l’Unione Fiscale, vera chiave di volta per creare un sistema unico tributario senza paradisi all’interno stesso dell’Eurozona. Solo così si potranno fronteggiare le grandi multinazionali over the top dell’economia digitale.
Dal punto di vista politico, si deve poi modificare la legge elettorale europea, prevedendo l’elezione diretta del presidente della Commissione, dare vero potere legislativo al Parlamento Europeo e prevedere l’istituzione del ministro unico del tesoro che possa emettere Eurobond, debito comune europeo. Solo così si potrà arrivare ad una federazione europea di stati.
Per quanto riguarda la società, serve la messa a punto di alcuni sistemi che prevedano, oltre allo ius soli nazionale, anche un sistema di riconoscimento di cittadinanza europea, mentre è urgente la messa a punto si una riforma dei sistemi di sicurezza interni che vadano verso l’istituzione di una Fbi comunitaria.
Se la Difesa unica è un caposaldo di ogni azione di integrazione europea, va pensata anche una forma di reintroduzione di servizio di leva obbligatorio con fini civici ma a livello comunitario.
Parimenti va sbloccato il piano di ricollocamento dei migranti che non può ricadere sull’Italia e sugli altri paesi del Mediterraneo. Per questo le minacciate procedure d’infrazione nei confronti dei paesi che non accettano di accogliere gli immigrati devono essere accompagnate da un taglio lineare del 10% dei fondi comunitari. Solo così, insieme alla costituzione di una Fbi europea e ad un esercito comune, si preserveranno i confini dell’Unione Europea. In conclusione, queste sei scosse spiegate nelle tre parti della proposta della Nuova Europa, dispiegate con altrettante leggi delega che vadano a ricoprire tutti i restanti settori dell’economia e della società italiana, costituiscono un unico corpo di riforme all’insegna di un principio valido per tutti: Italia come patria, Europa come nazione.