Perché serve ripensare i modelli di business editoriali dopo la“smartphone revolution”

L’acquisizione di WhatsApp da parte di Facebook certifica che le conversazioni tra privati possono avere un alto valore commerciale, come il petrolio e il gas. Il passo successivo, vista la dimensione orizzontale di tutti i social network, sarà spingersi ancora di più nel territorio dell’informazione. I più recenti dati sulle modalità con cui le persone cercano notizie lo confermano: in Italia, paese arretrato per la  penetrazione di internet ma all’avanguardia nell’utilizzo dei devices di ultima generazione, operatori quali Twitter vengono già oggi consultati dagli utenti per informarsi molto più di portali storicamente preposti a questa funzione e finanziati unicamente con la pubblicità. Se a ciò si aggiunge il fatto che negli Stati Uniti è in atto una importante trasmigrazione di firme storiche dei quotidiani e dei periodici verso personali siti e blog di informazione, se ne deduce che è in atto un processo rivoluzionario. Le notizie – con le loro gambe e grazie alla penna di operatori di alto rango – lasciano per sempre la carta stampata per entrare nel circuito digitale, diventano informazioni che hanno un prezzo. Ma i profitti non vengono più incassati dagli editori tradizionali.

Serve un radicale cambio di mentalità. Almeno a leggere in controluce alcuni dati del settore sullo sviluppo delle nuove tecnologie. L’incidenza in termini di volumi delle copie digitali nell’editoria nel suo complesso è pari a circa il 4,5% delle copie totali, mentre il valore del fatturato da vendita di prodotti e servizi digitali è pari a circa il 2% del totale dei ricavi da vendita di prodotti e servizi editoriali. Questa discrepanza è dovuta al fatto che il prezzo medio delle pubblicazioni on line è molto più contenuto delle copie cartacee, sia per i minori costi connessi alla pubblicazione (stampa) sia per il fatto che i prodotti digitali, essendo ancora in fase di lancio, sono soggetti a  romozioni che ne riducono il ricavo medio. Aumentano le vendite ma i ricavi crescono della metà.

E la pubblicità, compresa quella on line, ormai supera appena il 40% del fatturato complessivo. Le
copie diminuiscono, i ricavi flettono, l’advertising retrocede nonostante internet, i social network si sostituiscono alle tradizionali fonti informative. Il giornale on line, come è concepito oggi, non sembra in grado di frenare la deriva. Le copie di quotidiani vendute in formato digitale sono state pari nel 2012 a circa 65 milioni e rappresentano il 6,3% sul totale delle copie vendute: ma si tratta, nella maggior parte dei casi, di un fenomeno di sostituzione del prodotto cartaceo con quello digitale, piuttosto che di un ampliamento della platea dei lettori.

Spostare quindi la produzione giornalistica sul digitale senza modificare i modelli di business può portare a un calo ulteriore del fatturato. I costi per le grandi case editrici che puntano con decisione sulle versioni on line del quotidiano, tolta la carta e i benefici derivanti dall’inevitabile riduzione del personale, restano piuttosto incomprimibili, a fronte di una riduzione dei ricavi, sia dalla pubblicità (che vale meno rispetto a quella tradizionale), sia dalle vendite. Offrire sul web lo stesso prodotto a prezzi scontati è un tuffo in mare con una pietra al collo. Un mare pieno di insidie. I grandi operatori over the top (Microsoft e Google) hanno provato a integrarsi verticalmente acquistando case produttrici di smartphone: è il device la nuova edicola e il suo utilizzatore è il nuovo lettore.

In Italia circa 34,8 milioni di soggetti hanno la possibilità di accedere a internet da almeno un device
o una location. E naviga da smartphone e tablet il 34,8% degli individui, prevalentemente giovani
(oltre il 92% ha tra gli 11 e i 34 anni, persone che probabilmente non si sono quasi mai avvicinate
a una edicola). Il tasso di penetrazione, inoltre, supera il 90% per i laureati. Se si vuole raggiungere
questi potenziali lettori, adottando una logica propositiva e non difensiva (come accaduto nel settore
musicale), si può provare a reimpostare il sistema secondo tre direttrici:

– revisione del modello di business, come insegna l’esperienza del New York Times, primo tra gli
storici giornali americani a ottenere utili dalla vendita delle notizie on line;
– creazione di nuove realtà editoriali leggere, start up collegate alle testate storiche ma indirizzate
esclusivamente al nuovo prodotto, finanziate da venture capital o da fondi strutturali europei;
– predisposizione di un nuovo prodotto editoriale pensato esclusivamente come applicazione per gli
smartphone e i tablet. Un’offerta di nuovo conio e dai connotati italiani.

 

Il ruolo del web. Cosa succede nel mondo della carta stampata,
dove si sta vincendo la sfida digitale. L’autorevolezza e il ruolo
dell’attenzione: il caso del New York Times. Il modello economico-
finanziario

Il web sta trasformando le notizie in vere e proprie commodities. La gratuità dell’accesso ai siti internet e il modello di un flusso d’informazione in tempo reale mutuato dalle agenzie di stampa e dalla tv, ha portato a percepire le news come beni indifferenziati, indipendentemente da chi le produce e le confeziona. Abituati a leggere gratis su internet, i navigatori potrebbero però essere disposti a pagare
solo per contenuti realmente nuovi, originali: notizie e analisi veramente esclusive.

Sul digitale spazi di crescita potrebbero invece esserci per l’informazione di nicchia, specialistica e specializzata. Anche partendo da spin-off di testate cartacee già esistenti, per sfruttare le conoscenze di settore già acquisite. Fondamentale in questo caso è il ruolo della brand awarness dei giornali di carta. La notorietà di un marchio già presente sul mercato è un potenziale da non disperdere ma, tra il nuovo prodotto e quello che lo ha generato, non ci deve essere assolutamente sovrapposizione di contenuti, bensì  complementarietà. Con i nuovi mezzi cambiano anche le logiche di fruizione: un pezzo letto sul cartaceo può non funzionare sul web e viceversa.

Le nuove testate, pensate anche per tablet e smartphone, non devono quindi replicare i modelli cartacei ma integrare tutti gli strumenti disponibili: testo, video, blog, social network. Le “Appnews” devono essere in grado di diventare aggregatori di interessi, vere e proprie “community” di fruitori che possano utilizzare la piattaforma informativa anche per interagire tra di loro e manifestare il proprio senso di appartenenza. In quest’ottica è molto significativo il fatto che, in tutti gli studi sulla crisi della carta stampata e i nuovi modelli digitali, il termine “lettori” sia stato quasi completamente sostituito dal più generico, ma fortemente economico, “consumatori”. Il consumatore decide come e dove leggere le informazioni che interessano, il venditore della pubblicità on line condiziona la scelta delle notizie da pubblicare, i social network confezionano il pacchetto finale. L’intera filiera tradizionale editori-stampatori-distributori-lettori è completamente superata.

In generale si ritiene che una testata si debba contraddistinguere per la sua autorevolezza, per l’esclusività delle fonti, la qualità della scrittura. Tutti questi elementi nel digitale possono non bastare. Vince infatti chi riesce a catturare l’attenzione del lettore-consumatore: sulla rete lo switch-over tra un’offerta informativa e l’altra avviene in termini di secondi, con un click, quando per un prodotto cartaceo occorrono settimane oppure mesi prima che un individuo smetta di leggerlo definitivamente per sceglierne un altro. Diventa quindi importante utilizzare gli strumenti del marketing per comprendere e analizzare il potenziale fruitore. Scriveva Kevin Kelly, “le copie seguono il percorso dell’attenzione e l’attenzione ha un percorso tutto suo”.

Il modello New York Times, basato sul cosiddetto metered paywall – che prevede per gli utenti l’accesso gratuito a un numero limitato di articoli al mese e a pagamento per tutti gli altri – risulta vincente grazie al fatto di offrire in rete contenuti esclusivi e commenti qualificati. Per mantenere appeal presso il suo pubblico, tentando di allargarne anche i confini della diffusione, la testata Usa ha via via modificato lo stile di scrittura degli articoli sulla scia di quanto già avviene sulle pubblicazioni mensili. La notizia secca, il tweet, che viene consumata (e poi ripresa e “copiata” da altre fonti di informazione) in brevissimo tempo, è accompagnata da pezzi di scenario o da punti di vista originali su fatti già conosciuti. Il commento, l’analisi, il racconto, diventano essi stessi fonte di interesse per i lettori. Inoltre, proprio per rafforzare la sua presenza sul digitale, il NYT sta già lanciando nuove edizioni tematiche in abbonamento.

Il caso del New York Times fa ben sperare che gli editori possano riuscire a guadagnare anche sul digitale. Non esistendo tuttavia ex ante un modello vincente dal punto di vista economico, ogni nuova iniziativa va valutata ricercando il mix più adatto tra i ricavi dalla vendita di contenuti, abbonamenti e pubblicità. Sfruttando anche le novità di format che arrivano dal mondo della comunicazione digitale, come ad esempio il native advertising.

Quanto sta succedendo negli Stati Uniti è significativo ma non può essere preso come unico modello
di sviluppo. I grandi gruppi editoriali americani stanno affrontando la sfida del digitale da tempo e
hanno messo a frutto le esperienze di progetti nati direttamente sul web, capaci di valorizzare a pieno
le novità tecnologiche e l’utilizzo di algoritmi per migliorare le audience dei siti, senza però rinunciare a redazioni composte interamente da giornalisti. Ne sono un esempio i casi di BuzzFeed, la piattaforma di notizie basata sulla condivisione virale dei contenuti da parte degli utenti (il 75% del traffico arriva dai social network) che oggi conta 170 giornalisti e 60 milioni di dollari di ricavi pubblicitari, o
il sito di attualità e tecnologia Mashable, nato come blog nel 2005, che oggi dà lavoro a 70 persone.
Gli editori Usa tradizionali si sono trovati a fronteggiare in questi anni una situazione eccezionale,
con un calo sia delle diffusioni sia degli introiti pubblicitari, che sulla stampa sono scesi del 52% tra
il 2003 e il 2012. In un mercato nel quale a farla da padrone sembra sia l’informazione su internet, percepita dagli utenti come sostanzialmente gratuita, i grandi gruppi statunitensi (ma non solo) hanno deciso di provare ad invertire questa tendenza, con l’obiettivo di aumentare i ricavi da diffusione, di rendere il settore meno dipendente dalla pubblicità, ma anche di incrementare la pubblicità stessa
allargando il numero dei lettori grazie a offerte che includano l’accesso ai contenuti digitali ai propri abbonati all’edizione cartacea, e viceversa. Inoltre, presidiano il canale dei motori di ricerca e dei social network, diventati ormai una vera e propria porta d’ingresso ai siti di news da parte degli utenti. Una strategia che viene ben definita con un brutto termine gergale quale “presenza omnicanale”.

Oggi negli Stati Uniti sono circa 450 su 1380 i quotidiani ad aver adottato il modello delle notizie
a pagamento sul web. Non solo testate come il New York Times e il Wall Street Journal, ma anche
gruppi che pubblicano giornali locali (80 testate di Gannett, 47 di Lee; 30 di McClatchy e 14 di Ew Scripps, ad esempio). Il meccanismo più comune è quello del paywall, che prevede un numero di articoli gratuiti al mese da leggere sul web, oltre i quali è necessario pagare. Spesso chi utilizza questo sistema tiene conto anche del “traffico casuale”, ovvero quello generato da articoli postati dalle testate giornalistiche e diffusi (anche viralmente) sui social network, capaci di generare traffico sui siti. Secondo uno studio del Pew Research Center’s la metà degli utenti di Facebook arriva alle notizie senza cercarle e, tra coloro che guardano i video, la metà sceglie quelli d’informazione. Solo un terzo delle persone che ricevono notizie su Facebook seguono però una testata giornalistica o un singolo giornalista e pochi sono anche quelli che vengono reindirizzati sul sito. Una singola strategia digitale non è quindi sufficiente. È un dato che deve essere tenuto in considerazione anche nel mercato europeo. Sono in atto cambiamenti sul fronte dei ricavi. Nuove fonti di sostentamento si stanno infatti imponendo nel mondo delle news americane. Una nuova generazione di imprenditori (Jeff Bezos, John Henry e Pierre Omidyar) sta investendo il proprio denaro nel settore; il loro obiettivo è creare realtà del tutto nuove cercando nello stesso tempo di risollevare quelle storiche. Si tratta nella maggior parte dei casi di esperti del settore tech e veri outsider dell’informazione, dotati di budget consistenti. Crescono anche i finanziamenti e le donazioni.

Altri editori tradizionali, invece, decidono di regalare o offrire a prezzi molto ridotti l’accesso ai contenuti digitali ai propri abbonati all’edizione cartacea, con l’obiettivo di accrescere la diffusione del giornale e di poter offrire agli investitori pubblicitari una platea più estesa. La dinamica del mercato dell’advertising, che vede una forte flessione dei ricavi per l’edizione cartacea, sostituita solo in parte dalla crescita della raccolta on line “tradizionale”, ha portato alla ricerca di nuove fonti di fatturato pubblicitario. Sulla scia dell’esperienza di siti come BuzzFeed e Mashable, anche il New York Times e il Wall Street Journal hanno cominciato a sperimentare la native advertising, ovvero i contenuti realizzati nella maggior parte dei casi da giornalisti ma pagati dagli inserzionisti. Non si tratta tuttavia di moderni pubbliredazionali, ma di veri e propri articoli realizzati per interessare il lettore e attrarre condivisioni. Ai quali l’investitore decide di affiancare il proprio marchio, senza che si parli necessariamente del prodotto o del brand. La società di ricerca EMarketer ha stimato che nel 2014 questo format pubblicitario raggiungerà negli Usa un valore di 2,85 miliardi di dollari. Introdotto nel marzo del 2011, il modello delle news a pagamento del New York Times rappresenta uno dei principali casi di successo sul fronte dell’informazione digitale. Il suo paywall prevede per gli utenti l’accesso gratuito a 10 articoli al mese (all’inizio erano 20), mentre per i successivi è necessario sottoscrivere un abbonamento. L’accesso gratuito è riservato agli abbonati del giornale tradizionale e a chi legge gli articoli passando attraverso i social network.

Nel 2013 la diffusione media del NYT sulle diverse piattaforme (carta, digitale, mobile) è stata di 1,9 milioni (dal lunedì al venerdì) e di 2,4 milioni alla domenica: in sensibile crescita, dunque, rispetto ai 1,6 milioni e ai 2,1 milioni dell’anno precedente e ai 1,3 milioni e 1,8 milioni del 2011. Sono cresciuti anche – e di molto – gli abbonati digitali. Da quando ha istituito il paywall, la testata è passata dai 390 mila abbonati digitali del primo anno ai 640 mila del secondo (+64%) ai 760 mila del 2013 (+19%), anche se negli ultimi trimestri la crescita sta rallentando. Il fatturato da diffusione, comunque, sta  compensando la diminuzione di quello derivante dalla pubblicità sulla carta. I ricavi da abbonamenti digitali, e-readers e edizioni replica del quotidiano cartaceo hanno raggiunto nel 2013 i 149,1 milioni di dollari rispetto ai 111,7 milioni del 2012 (+33,5%) e ai 44,3 milioni del 2011, su un fatturato totale tendenzialmente stabile a quota 1,5 miliardi di dollari. Sul fronte dei contenuti, il NYT ha lanciato nel novembre del 2013 Times Minute, un nuovo format di videogiornale della durata di 60 secondi, che conta 3 edizioni quotidiane (alle 6, alle 12 e alle 18) e offre le tre principali notizie del momento, con spot associati al notiziario. Inoltre, il giornale ha spinto sull’accrescimento del numero di canali tematici (come ad esempio quello dedicato alla enogastronomia), che consentono di attirare audience specifica a cui destinare pubblicità su misura e anche articoli sponsorizzati dalle aziende.

La ricerca del pubblico si evidenzia anche sul fronte delle iniziative commerciali e di marketing. Il giornale ha lanciato ad aprile 2014 una nuova applicazione, NYT Now, che consente di leggere dai dispositivi mobili (inizialmente solo iPhone) un’ampia selezione di articoli per 8 dollari al mese. Una mossa per conquistare i giovani, che si affianca all’offerta dell’abbonamento standard al costo di 35 dollari al mese e alla nuova Times Premier, che con 45 dollari al mese permette di avere tutti i contenuti e di poterli condividere con altri due utenti (e con altri 10 dollari si può avere la copia cartacea a domicilio).

Il Wall Street Journal, il quotidiano economico-finanziario della News Corp, è stato il primo nel 1997 ad utilizzare un sistema di paywall che permette la consultazione gratuita solo degli articoli d’interesse generale, mentre sono a pagamento i contenuti più specialistici su temi economici e finanziari. Nel 2013 gli abbonati all’edizione on line sono stati circa 898 mila su un totale di 2,4 milioni di copie,
mentre le visite mensili sono ammontate a 69 milioni, 137 milioni se si considera tutto il network
digitale del Wsj (tra cui i siti di Barrons e MarketWatch, che da solo vale più di 37 milioni di utenti
al mese).

Rispetto all’edizione cartacea, sul web la testata punta ad ampliare la sua platea con articoli e ti-
toli più adatti a un pubblico generalista, facendo comunque leva sull’informazione di qualità. Dalla previdenza alla salute, il giornale ha lanciato nuove sezioni, canali verticali e videochat di esperti.
L’obiettivo è fidelizzare gli utenti, incrementare gli abbonamenti e il traffico sul sito. Potenziando nel
contempo anche l’appeal dell’edizione cartacea sia in termini diffusionali sia pubblicitari grazie alla
presenza sui social network, volàno per aumentare la notorietà del brand e porta d’accesso ulteriore
alle notizie del sito. La politica dei vertici del giornale, infatti, è di incentivare l’abbonamento sia alla versione cartacea sia a quella digitale e mobile con pacchetti ad hoc che includono le due edizioni a prezzi più vantaggiosi.

Come il New York Times, anche il WSJ ha iniziato a pubblicare on line articoli a pagamento utilizza-
bili dagli inserzionisti per creare e diffondere storie che aiutino a promuovere i marchi (la cosiddetta native advertising).

Il futuro del giornale passa per l’analisi dei flussi della pubblicità on line e la conoscenza approfondita del ruolo informativo dei social network e dei motori di ricerca. Identikit dei nuovi lettori

In Europa e ancor più in Italia i mezzi tradizionali rivestono ancora un ruolo prioritario per gli individui
ai fini informativi. Internet sta però assumendo progressivamente maggiore rilievo. Il nuovo mezzo
di comunicazione è ormai utilizzato dal 42% delle persone che si interessano attivamente ai fatti di
attualità, con una distanza di appena 3 punti percentuali dai quotidiani. Inoltre, internet si configura

come una fonte di primaria importanza soprattutto per la ricerca di notizie inerenti l’attualità interna-
zionale e nazionale, essendo diventato il secondo mezzo di informazione dopo la televisione.

Come ha rilevato una recente indagine dell’Autorità per le Comunicazioni, l’attuale fase evolutiva di
internet è contraddistinta dall’affermazione di una pluralità di servizi di tipo verticale (l’informazione o
l’intrattenimento audiovisivo), ovvero orizzontale (i portali, i motori di ricerca e i social network), offerti
sempre più in mobilità, e spesso finanziati dalla raccolta pubblicitaria on line. Tali servizi sono distribuiti
da network platform – piattaforme che servono reti di utenti – caratterizzate dall’esistenza di fattori (esternalità di rete, rendimenti crescenti di scala, costi di multi-homing, sunk cost) che tendono a determinare un incremento del livello di concentrazione fino ad una situazione in cui, alle volte, un unico operatore rimane sul mercato. È una situazione che deve essere monitorata con attenzione dagli editori tradizionali, perché i diversi livelli della filiera produttiva sono sempre più interdipendenti, in particolare quello dei devices e dei software di navigazione con l’offerta di servizi web (sia orizzontali che verticali). Chi sono gli utenti del web? Esistono tre categorie:

A) utenti della rete che rappresentano una parte cospicua della popolazione e presentano caratteristiche socio-economiche peculiari e distintive rispetto ai fruitori degli altri mezzi di comunicazione;

B) utenti non navigatori che ricadono  nell’esclusione digitale (digitale divide) per motivi geografici, generazionali, professionali;

C) utenti del web della prima ora, i “nativi digitali”, particolarmente giovani, che costituiscono la forza propulsiva della società dell’informazione.

Le categorie A e C non leggono tradizionalmente la carta stampata (salvo coloro che non sono raggiunti da internet, ma di certo non si può puntare sul ritardo tecnologico per fidelizzarli) e sono quelle che si potrebbero definire utenti della “smartphone revolution”: si tratta di circa 20 milioni di persone, prevalentemente giovani (9 su 10 ha tra gli 11 e i 34 anni). Sono aperti a nuovi prodotti, guardano la
tv mentre sono contemporaneamente connessi su tablet e altri devices, la carta praticamente non la
conoscono. Sono destinati a diventare sempre di più.
In Italia è ancora prevalente la navigazione da apparati fissi, ma quelli mobili tendono ad acquisire quote di mercato sempre maggiori. Per alcune categorie di servizi orizzontali, è iniziato uno spostamento consistente della navigazione su internet dalla modalità fissa a quella mobile: questo comporta una rivoluzione nella fruizione e nell’offerta di servizi e una trasformazione della loro valorizzazione economica. È in atto una tendenza di fondo peculiare: chi naviga su apparecchi fissi non è disposto a
pagare per leggere le notizie mentre questa predisposizione può radicalmente cambiare se si naviga
su strumenti mobili. L’offerta agli utenti resta caratterizzata dalla gratuità, nella maggior parte dei casi,
dei contenuti e dei servizi. Per questo si registra una crescente attenzione, da parte degli operatori e
degli inserzionisti, per la raccolta dei dati e delle preferenze personali. Si legge gratis ma si paga un
obolo inconsapevole ai grandi player della rete. Lo scambio avviene senza transazioni economiche.

La quantità di informazioni raccolte ed elaborate ogni anno sta aumentando infatti in maniera esponenziale e l’evoluzione della tecnologia sta modificando le modalità di tracciamento, che risulta sempre più accurato. In termine tecnico si chiama profilatura: è il passaggio chiave attraverso cui il
lettore diventa consumatore. Cambia tutto. La privacy, gli assetti concorrenziali di internet, l’offerta di
informazione e la raccolta di pubblicità on line. A riprova di quanto le conversazioni e i dati stiano assumendo in rete un valore maggiore delle notizie, giova ricordare quanto accaduto con lo scandalo delle intercettazioni Datagate e le rivelazioni legate all’attività della Nsa. Il clou della mastodontica operazione di schedatura di milioni di informazioni, sottratte a 35 leader mondiali e a un numero enorme di normali cittadini, è avvenuto quando l’Eurozona era sotto attacco ed è stata poi rivelata dal Washington Post e dal Guardian che per questo hanno ricevuto il Pulitzer 2014. La maggior parte delle notizie carpite dall’intelligence americana sarebbe stata però facilmente reperibile leggendo gli organi di stampa. Questo caso di rilevanza mondiale è anche la conferma dell’esistenza di un’altra area di sfida per il giornalismo nell’era digitale: il facile accesso ai contenuti del web. The State of the News Media Report 2013 ha messo in guardia gli operatori sui continui cali di interesse del pubblico nei media mainstream. Il prestigioso premio riconosciuto ai due quotidiani dimostra che si può risalire la china dell’autorevolezza perduta. Ma esistono insidie ancora più pericolose: la rivoluzione digitale produce una mutazione dei rapporti tra capitale e lavoro. Una recente ricerca di due economisti di Oxford (The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation?) si è posta il problema. Gli studiosi hanno assegnato da 0 a 1 (laddove 1 è la certezza) la possibilità per alcune categorie di essere cancellate dall’innovazione tecnologica sul web e messo a punto una sorta di indice di futura disoccupazione. Se mestieri quali i fisioterapisti (0,003 la probabilità di scomparire), i dentisti (0,004), gli allenatori (0,007), gli ingegneri chimici (0,02) e gli editori (0,06) sembrano quasi al sicuro, dagli attori in poi (0,37 su 1 le possibilità di essere sostituiti) sono tantissime le posizioni lavorative a rischio. Si va dagli economisti (l’indice è 0,43) ai piloti commerciali (0,55) fino ai macchinisti (0,65), ai word processors (0,81) per finire a quelle figure che sarebbero ad un passo dall’estinzione da qui al 2033: gli agenti immobiliari (0,86 l’indice), i venditori al dettaglio (0,92), i contabili e i consulenti legali (0,94), i televenditori (0,99 l’indice). Forse Carl B. Frey e Michael A. Osborne, questi i nomi dei due ricercatori, si sbagliano, ma non è escluso che economie tradizionali come quelle europee potrebbero trovarsi di fronte ad una netta biforcazione del mercato del lavoro. Da una parte coloro che, altamente specializzati, hanno un futuro di salari mediamente elevati. Dall’altra, una fetta consistente di lavoratori che rischiano di passare da un salario importante ad uno più basso ed ipotetico, perché c’è un computer al loro posto. In Europa, mentre perdura la crisi durissima del settore editoriale, le società di telecomunicazioni nel 2012 hanno fatturato cinque miliardi di euro in meno e anche il comparto del credito, per via della liberalizzazione dei sistemi di pagamento e del boom degli sportelli on line, si trova a fare i conti con forti processi di ristrutturazione del personale. Le aziende che decidessero di implementare fortemente la loro attività su internet devono tenere nel dovuto conto anche questa prospettiva.

Se quindi dal punto di vista dell’offerta è semplicistico considerare i motori di ricerca, i social network,
i portali, i blog solamente come una “golden gate” per cavalcare il boom del web, anche dal lato
della domanda ci sono terreni inesplorati. È quasi banale sottolineare come internet rappresenti, in Italia come all’estero, uno straordinario mezzo di informazione, di discussione e di formazione dell’opinione pubblica. È sorprendente invece che nel nostro Paese la rete rappresenti uno strumento di informazione che riveste un’importanza pari a Paesi molto più digitalizzati come Usa e Regno Unito.
Si può recuperare il gap del digital divide rafforzando le dinamiche informative e innovando i modelli
di business editoriali.

In questa nuova ottica vanno rilette le cifre sull’informazione in rete. Quella tradizionale (quotidiani
on line soprattutto) è la principale, con una penetrazione del 28% della popolazione. Gli aggregatori
sono sopra il 10% (blog e nuove testate on line), e il 12,4% degli italiani utilizza i motori di ricerca
anche per informarsi. Google in Italia è il sito più utilizzato a questo scopo (21,5% degli utenti web),

Facebook si colloca al quinto posto; in mezzo, letteralmente schiacciati, ci sono la Repubblica, Cor-
riere della Sera e Ansa. Twitter è al tredicesimo posto ma sta diventando un mezzo di informazione primaria per tutti gli addetti ai lavori, anche per l’utilizzo che ne fanno politici con responsabilità di
governo. L’affermazione di internet, l’offerta gratuita di notizie on line, il calo delle vendite e di audience dei prodotti tradizionali e, al contempo, la concorrenza di molteplici operatori nell’alveo dell’offerta informativa digitale ha creato, a livello mondiale, problemi di finanziamento all’intero sistema editoriale.

Maggiore è l’offerta in rete, maggiore risulta la riduzione delle fonti di reddito e, in prospettiva, più
alto diventa il rischio di uno scadimento della qualità delle fonti. Tutto ciò è aggravato dalla crescente
dipendenza dell’offerta editoriale tradizionale su internet dagli operatori over the top.

In Italia ormai più di un terzo del traffico (34%) in entrata nei siti dei quotidiani proviene infatti da
motori di ricerca e social network, laddove i primi (20%) risultano più importanti dei secondi (14%).
Nel caso delle testate “native digitali” le percentuali si invertono con una dominanza di Facebook
(31%) su Google (9%), e anche i siti risultano più dipendenti dal traffico generato da motori di ricerca
e social network (40%). In entrambi i casi, il traffico in entrata (34% e 40% come detto) è maggiore di
quello in uscita (31% per i quotidiani on line e 34% per le testate digitali) verso i servizi orizzontali.
Quelli appena citati, tratti da comScore, sono dati fondamentali che peseranno sulle scelte per il
futuro. Come anche quelli relativi al traffico che nasce e finisce direttamente sui siti di informazione
senza provenire da (o terminare in) altri siti. I lettori captive, cioè fedeli alla testata dalla prima ora,
sono ancora troppo pochi. I quotidiani presentano una percentuale di traffico diretto in entrata del
6% e in uscita del 9%; le testate “native digitali” fanno anche più fatica, avendo una minor forza del
marchio, presentano percentuali più che dimezzate (rispettivamente 2% e 4%).
I siti di informazione on line subiscono la significativa influenza, per audience generata e raccolta
pubblicitaria, dei motori di ricerca e dei social network: sono le nuove edicole dove non si paga per
leggere. L’appeal, anche commerciale, di questi siti dipende proprio dalla capacità di produrre traffico
affezionato ai servizi informativi della piattaforma.
I mezzi si moltiplicano ma il fatturato totale non aumenta. È in corso una forte dispersione di valore perché la gran parte dei nuovi operatori on line tendono a riproporre in forme diversificate (aggregando, commentando, creando forum e reti sociali) notizie già presenti in rete, generate però dagli editori tradizionali. Il risultato è che queste ultime piattaforme, a causa della drastica riduzione dei propri ricavi, tagliano i costi di parte della propria attività giornalistica. Come ricordato, negli Usa e in misura minore in Europa, si sta provando a finanziare una serie di iniziative volte a far crescere l’attività giornalistica on line, ed in particolare quella d’inchiesta.
L’Italia, su questo fronte, come su quello della valorizzazione del marchio e del valore intrinseco delle notizie, risulta ancora molto indietro. E il motivo è nei numeri del giro d’affari. Oltre il 90% del fatturato dei quotidiani deriva ancora dal prodotto storico. In particolare, mentre dal lato pubblicitario il web rappresenta oramai una posta significativa, avendo superato il 10% del totale dei ricavi pubblicitari
totali, dal lato della vendita di copie, i prodotti digitali rappresentano ancora una frazione marginale
(2%) dei relativi ricavi. Di conseguenza, la composizione dei ricavi da servizi digitali è largamente
sbilanciata a favore della componente pubblicitaria (85% contro il 15% dei ricavi da vendita di copie
digitali). Nel caso dei quotidiani cartacei la ripartizione dei ricavi è più equilibrata, con una prevalenza
del fatturato da vendita di copie (55%), ma la situazione è in costante peggioramento. La strada del
digitale sembrerebbe quindi obbligata. C’è però da fidarsi di un’informazione on line non finanziata
dai lettori? Quanto è solida una scelta imprenditoriale che non genera ricavi in grado di sostenere il
peso dei costi dei grandi gruppi editoriali?

Le statistiche e gli studi in materia dimostrano in maniera evidente che la difficoltà di valorizzare il
prodotto digitale emerge in tutta la sua chiarezza nelle elaborazioni del rapporto tra i ricavi medi
delle due tipologie di prodotto (cartaceo e digitale). A parità di prodotto offerto, il mezzo informativo
digitale viene valorizzato molto meno dagli editori italiani. A un euro incassato dalla vendita di un giornale cartaceo corrispondono 37 centesimi di ricavi per il medesimo prodotto in rete. Senza contare sconti e riduzioni di prezzo per lanciare le nuove iniziative. E da un punto di vista pubblicitario non va meglio: il ricavo medio per visitatore sul web raggiunto è un terzo di quello del prodotto su carta.

La costante crescita di operatori nuovi su internet eroderà ulteriormente il mercato tradizionale. Accade così che gli editori su internet subiscano da un lato la concorrenza di offerte gratuite, che potrebbero comprimere significativamente i prezzi fino a spingerli a zero. Dall’altro, il versante pubblicitario on line è caratterizzato dalla presenza di numerosi e qualificati concorrenti, dai motori di ricerca ai social network che, come visto, agiscono anche sul versante informativo catturando il maggior numero di utenti/lettori.

I driver del mercato sono i nuovi editori. La rete non restituisce in termini di valore quello che le viene
offerto come contenuti. La gratuità delle proposte on line appare inarrestabile. Per evitare la costante
riduzione del fatturato, gli editori internazionali hanno introdotto forme di pagamento per l’accesso
ai siti delle testate on line attraverso lo strumento del paywall. I citati esempi di successo, quali
quello del New York Times e dei quotidiani finanziari Wall Street Journal e Financial Times, hanno
aperto il dibattito sull’opportunità, per gli editori, di limitare l’accesso ai propri siti, condizionandolo
al pagamento di un abbonamento dopo un certo numero di ingressi gratuiti. In Italia questa strategia
potrebbe però avere effetti negativi in quanto, limitando il traffico in entrata, ridurrebbe ulteriormente gli introiti della raccolta pubblicitaria. Il fatturato derivante dai nuovi abbonamenti on line non compenserebbe poi la riduzione del calo della pubblicità in rete e l’effetto netto sui ricavi complessivi resterebbe negativo. È quanto accaduto a testate come il Sun.

Il popolarissimo tabloid britannico, proprio a metà del 2013, ha introdotto il paywall per il proprio sito di news. Con questo sistema l’audience del sito ha subìto, da un giorno all’altro, una drastica riduzione di visite e pagine viste. I visitatori unici nel mese sono tracollati dai 5,7 milioni di luglio agli 800 mila di ottobre. Il mercato dei lettori è molto più attento di quanto si pensi e punisce le limitazioni d’accesso ai siti. Soprattutto nel caso di testate che non presentino un marchio internazionale particolarmente forte o che non si siano specializzate su target alto-spendenti e notizie finanziarie ad
elevato valore aggiunto.

Internet media, nuovi soggetti e proposte operative per le start up
editoriali

L’unico settore in crescita in Italia è quello degli internet media, aumentati nel 2013 del 18%, per quasi 1,9 miliardi di euro complessivi: circa il doppio di quanto ha perduto l’intero comparto editoriale classico. In cinque anni i nuovi operatori della rete, secondo una ricerca del Politecnico di Milano, hanno più che duplicato il loro valore, passando da un’incidenza sul totale del 5% (2008) a una del 12%,
che potrebbe superare il 20% nel 2018. I dati vanno letti insieme ad un altro fattore (uno dei pochi)
di sviluppo: il settore dell’e-commerce in Italia nel 2013 è cresciuto del 13% per un valore complessivo
di 11,3 miliardi di euro.
I ricavi, pubblicitari e pay, generati dai nuovi operatori internet su Smartphone sono in crescita quasi
del 170%; la pubblicità sui social network (Facebook in primis) è balzata in avanti del 75%; i ricavi,
pubblicitari e pay, generati dai video on line sono aumentati del 37%; cresce anche la pubblicità di
nicchia basata sulle aste che utilizzano in tempo reale i dati sugli utenti, e che ha intercettato nel 2013
circa il 4% del display advertising.

Analizzando nel dettaglio le dinamiche di ciascuna componente, però, si scopre che una parte consistente di questo nuovo mercato è appannaggio delle grandi internet company globali. Gli editori classici sono riusciti solo in parte a cogliere queste nuove opportunità. Per vincere queste sfide occorre una profonda trasformazione, sia dal punto di vista culturale e organizzativo, che come modello di business.

Occorre una broadcast revolution, puntare molto di più di quanto fatto finora sulle start up. Una parte
consistente del mercato generato dalle nuove componenti di internet (mobile, social, video, data-driven
e advertising) proviene proprio da nuove imprese. Si deve scoprirle, senza soffocarle come se fossero
concorrenti. È ragionevole considerare una loro integrazione nel ciclo dell’offerta informativa.

Il mondo editoriale deve essere in grado di coltivare la sperimentazione continua, lanciando con rapidità un nuovo prodotto digitale sul mercato per ricevere immediatamente i commenti, le indicazioni e le critiche degli utenti. Nello stesso tempo non si deve lasciar morire l’innovazione sulla carta stampata. La riconoscibilità e la consapevolezza del marchio si sono imposti in rete per alcuni grandi gruppi e questo può generare un effetto traino per i quotidiani, ma i risultati per la maggior parte delle aziende
stentano ancora ad arrivare. Non si può contare unicamente sulla popolarità della testata in rete.
In questo senso va fatto tesoro di quanto avvenuto negli Stati Uniti, dove è stato rinnovato anche il modo di scrittura: notizie non più nelle prime cinque righe, come insegnano tutti i manuali. “Il giornalismo è una meccanica, con le sue viti e i suoi ingranaggi, ma si impara. Bisogna avere l’orgoglio del mestiere. Nel lavoro di reporter si può dire quello che si vuole, ma a due condizioni: che lo si faccia
in forma credibile e che il giornalista sappia in coscienza che quello che scrive è la verità. Chi cede alla tentazione e mente, anche solo sul colore degli occhi, perde”. Hanno vent’anni queste affermazioni tratte dalle lezioni di Gabriel Garcia Marquez e sono ancora di stimolo per moltissimi giornalisti.

Alcune riviste sudamericane stanno vivendo un successo inaspettato grazie ai reportages e alla loro
accuratezza espositiva. La stessa strada è intrapresa qualche volta anche in Italia ma in modo ancora
troppo estemporaneo; eppure la crisi dell’inchiesta televisiva dovrebbe incoraggiare uno stile che è
ancora proprio della parola scritta, quello di raccontare i fatti in modo incisivo e vicino alla realtà. I potenziali nuovi lettori non aspettano altro e invece si devono accontentare dell’offerta molto etero-
genea e spesso superficiale che offre la rete.

Manca una strategia condivisa, il coraggio di innovare e di migliorare. Con i primi esperimenti di
paywall, si tende a proporre agli utenti italiani il medesimo prodotto, effettuando spesso una mera trasposizione dei contenuti dell’edizione cartacea sui devices. Altri soggetti stanno timidamente provando la strada dell’e-commerce. La salvezza dei giornali è invece offrire una proposta informativa diversa per testata, scrittura e firme, da quella su internet: le due piattaforme devono diventare
prodotti alternativi, quasi antagonisti, come televisione e cinema. A lettori potenzialmente diversi
devono essere offerti prodotti differenziati. In caso contrario, i ricavi dalle due attività potrebbero
complessivamente ridursi.
Secondo molti analisti gli editori hanno davanti tre sfide principali per innovare il modello di business:
aumentare i ricavi da pubblicità grazie ad una rinnovata analisi dei dati e della loro forza di attrazione
per l’advertising; valorizzare al meglio i contenuti a pagamento; diversificare le fonti di guadagno.
Lo stanno già facendo, ma non basta. Le esperienze internazionali di media company che ottengono
buoni risultati nel mondo dell’e-commerce, del couponing, del gaming, in Italia non sono replicabili
con certezza di successo. La struttura dei costi è ormai poco comprimibile, pena il decadimento del
prodotto finale. Occorre trovare una formula tipicamente nazionale, che tenga in considerazione gli
andamenti demografici e la capacità di spesa dei nuovi lettori. Spostare semplicemente il prodotto
editoriale dalla carta all’on line non può che far diminuire gli introiti finali.
Chi ha avuto da subito l’intuizione di andare in rete a pagamento, come accaduto negli Stati Uniti,
solo oggi, dopo anni di crisi durissima, sta ottenendo risultati. Effettuare la stessa operazione in Italia
adesso porterebbe a risultati più simili a quelli ottenuti dal Sun che dal New York Times.
Infine, occorre valutare bene la trasformazione dei social network, non più solo community che drenano
pubblicità ma veri organi di informazione primaria. La notizia che vale un euro sulla carta passa al web a
costo zero per il riaggregatore, ma gli può fare incassare due euro di pubblicità. Gli editori sono tagliati
fuori, a meno di non ipotizzare in futuro, come nel 2001, lo scoppio della bolla social-internettiana.
Ci sono anche segnali in questo senso, sulla base di quanto sta accadendo dall’inizio del 2014 sui
mercati finanziari. A maggior ragione, è meglio inserirsi con prudenza in quel passaggio cruciale che
sarà determinato dalla trasformazione dei giganti del web, sfruttando al meglio le capacità di ripresa
dei mercati europei e la rinnovata attrattività dell’Italia verso i capitali internazionali.

In un’ottica di rilancio dell’intera economia nazionale, una possibile operazione potrebbe essere quella di promuovere una start up che si basi su un nuovo modello operativo: un portale di notizie e di informazioni rilevanti per gli acquisti tarato sull’Italia e rivolto al resto del mondo. Un sito anche in
lingua inglese, raggiungibile da tutte le piattaforme che dreni pubblicità su smartphone, community
e video on line, gli unici settori che, come visto sopra, stanno registrando un’importante crescita dei
volumi. Il campo delle “italynews’’ oggi è presidiato praticamente solo da media internazionali con
testate quali il New York Times e il Telegraph.
Il nuovo network editoriale dovrebbe avere cinque operatività: news (scritte, video, app), advertising,
e-commerce, travel, finance. A livello nazionale le nuove aziende che sono nate in questo comparto si contano sulle dita di una mano e praticamente nessuna ha come core business l’attività giornalistica.
Normalmente si occupano di pubblicità e social network. Bisogna invece ripartire dalle informazioni,
come dimostrato dall’acquisizione di WhatsApp da parte di Facebook e dai citati casi di divulgazioni
riservate, perché sono quelle ad avere una potenzialità commerciale molto forte. Se in rete i lettori diventano consumatori, le notizie vanno trasformate in dati privilegiati. Per fare questo ci vuole autorevolezza, conoscenza del mercato e una solida esperienza alle spalle.

Molti governi hanno provato a diffondere l’immagine dell’Italia nel mondo del web. I risultati sono stati deludenti. Il comparto editoriale è tra quelli che ha la maggiore conoscenza dei mercati finanziari, tanto che alcune autorevoli banche d’affari lo considerano quello che rimbalzerà prima degli altri, appena la ripresa si sarà consolidata. Questo settore ha quindi il know how giusto e le motivazioni ideali per un’iniziativa diversa dalle soluzioni che si stanno studiando oggi.
Nel 2013 ha vinto l’Oscar un film muto in bianco e nero. È successo una volta, difficilmente ricapiterà.
Quel tipo di prodotto continuerà ad avere degli appassionati. L’industria musicale, dopo anni di crisi, è riuscita finalmente a rivedere la luce grazie ai download legali. Il vinile è tornato in auge come supporto per cultori. Smartphone e tablet sono le nuove edicole, internet si sta sostituendo ai quotidiani.

Il giornale di carta sarà rivolto ad un pubblico sempre più attento al contenuto e al valore aggiunto
degli approfondimenti. La sfida da cogliere è quella di far viaggiare l’offerta informativa su due binari
ben distinti. Senza sacrificare qualità e risultati.