Il mondo da sempre si divide tra chi presta soldi e chi li chiede. Chi produce e chi consuma. Chi risparmia e chi spende, o spreca. Cicale e formiche. E l’Italia non fa eccezione. Non è certo nato il 27 settembre del 2018 il partito della spesa con il varo di quello che sarà la manovra del governo Conte per quasi 40 miliardi di euro, di cui 27 in deficit. Oggi tutto parlano del Def e del suo aggiornamento ma ignorano la storia. L’Italia ha un debito pubblico di oltre 2.300 miliardi di euro perché dopo gli anni ruggenti del miracolo economico decine di esecutivi a guida democristiana acquisirono il consenso con le baby pensioni, i trattamenti di invalidità e la Cassa del Mezzogiorno. Erano il reddito di cittadinanza degli anni sessanta e settanta e hanno prodotto almeno la metà del debito che oggi poggia su ciascun italiano, neonati compresi, per 33.000 euro a testa. Le sole baby pensioni sono costate oltre 80 miliardi di euro, otto volte quanto costerà appunto l’avvio del reddito di cittadinanza.
Meglio non è andata con l’avvento dell’Unione Monetaria Europea. I governi tecnici, guidati spesso da uomini di Banca d’Italia, hanno sì fatto entrare nell’euro il nostro paese e ci mancherebbe se questo non è stato un successo, ma per far ciò, invece di tagliare il debito e di dare la caccia senza quartiere agli evasori, hanno fatto cassa con le privatizzazioni spesso fatte male e a sconto ma per chi comprava, incassando oltre 200 miliardi di euro, ma indietreggiando sul fronte della politica industriale e decretando un mezzo deserto dove qua e là spunta ancora qualche grande azienda ma com le banche un tempo pubbliche ora non solo private ma detenute da stranieri. L’austerity europea dopo la crisi finanziaria e la temuta Grexit, il boom dell’economia digitale, i nuovi monopoli hanno fatto il resto. E oggi l’Italia, come gli Stati Uniti, è diventata luogo di disuguaglianze. Un paese dove in dieci anni i poveri sono raddoppiati – si badi bene ora si dovranno scovare i veri poveri mischiati ai tanti furbi evasori – e i ricchi milionari sono cresciuti del 9% e dove il ceto medio non ha mai incassato il dividendo dalla partecipazione all’euro.
In questo contesto complicato e reso fragile dal diffondersi dei venti nazionalisti in tutta Europa, la manovra in deficit del governo italiano non arriva come un fulmine a ciel sereno. Era annunciata sin dal primo giorno della nascita dell’esecutivo Italy First, che ha messo nero su bianco il superamento di un certo tipo di rapporti con l’Unione Europea, fatti di sottomissione, per quasi un decennio, alle regole dell’austerity e al direttorio franco-tedesco. Il braccio di ferro con Bruxelles per una legge di bilancio che ha portato il rapporto deficit-Pil al 2,4%, prevedendo misure complessive che costeranno evidentemente un bel po’ di debito in più, tra reddito di cittadinanza, flat tax, superamento della legge Fornero e disinnesco delle clausole fiscali, è solo l’esito della rottura del un meccanismo di trasmissione tra istituzioni comunitarie e cittadini che si riverbera sui mercati e sullo spread. E che non si sta consumando solo nel nostro paese. Più delle scelte dell’esecutivo Conte, che dovranno essere ben ponderate a tutela suprema del risparmio degli italiani, preoccupa quindi la mancanza totale di un minimo di autocritica da parte dell’ortodossia europeista.
Un’ortodossia che ha sempre pesato e non contato i disavanzi, come Enrico Cuccia faceva con le azioni. Solo così si può spiegare l’occhio di favore con cui da anni Bruxelles – che oggi si prepara a cantarcele sui conti pubblici, ma anche questa non è una novità – guarda ai conti pubblici francesi e alle costanti pressioni che invece riserva da quasi un decennio all’Italia, a prescindere da quale sia il governo. I primi, sarà la grandeur, la capacità di pervadere i gangli dell’eurobucrocrazia e comunque anche il fatto di essere una potenza nucleare, riescono sempre ad impostare una politica economica a immagine e somiglianza del presidente di turno, sia socialista, gollista o di un nuovo fronte come nel caso di Emmanuel Macron senza avere troppo problemi con l’Ue. I secondi, sono stati costretti, sin dai tempi del governo di Silvio Berlusconi, a varare provvedimenti restrittivi in attesa o per scongiurare un default che ovviamente non è mai arrivato (ne mai arriverà vista la solidità della sua economia) per almeno duecento miliardi di euro dal crack di Lehman Brothers in poi.
Tanta differenza di trattamento è giustificata? Il governo gialloverde è solo l’ultimo degli esecutivi a doversi confrontare con la trattativa estenuante con la Commissione Europea per ottenere una flessibilità che permetta di aggirare di fatto gli effetti pro-ciclici di trattati che andrebbero rivisti come il Fiscal Compact. Dunque il problema parte da lontano perché la finanza pubblica ormai è come la fisica, nulla si crea e niente si distrugge. Eppure qualcuno riesce ad essere nell’eurozona più creativo degli altri. La Francia da quando esiste il vincolo del 3% ed è entrato in vigore l’euro, raramente ha rispettato questo tetto, nonostante abbia un debito assoluto pressoché pari a quello italiano (e cresca di più, come dimostrano i dati del Fondo monetario internazionale) e vicino al 100% di Pil. A inizio millennio l’ha anche superato insieme alla Germania e mai nessuno che davvero la incalzasse. Unica vera differenza con l’Italia, che pesa sui mercati ma che è anch’essa ingiustificata, è la doppia AA assegnata dalle agenzie di rating contro la nostra tripla BBB. Un abisso che non trova alcuna spiegazione nei fondamentali economici come i quasi 200 punti base di differenza tra lo spread di Roma con Berlino e quello di Parigi.
Tutti sanno che comanda il direttorio franco-tedesco, sia nell’imporre le misure dell’austerity, a Italia, Grecia, Portogallo e Spagna, sia nel chiudere un occhio sulle ristrutturazioni bancarie in Germania fatte con soldi pubblici (227 miliardi di euro) poco prima del varo del bail in, che ha capovolto l’onere del salvataggio, o sull’invadenza dello stato nell’economia francese che erige alte barriere a chiunque volesse acquistare anche un solo pasticcino. La distonia dell’applicazione delle regole, che viene confermata anche dalla mancanza di sanzioni alla Germania per l’enorme surplus commerciale, né mitigata per le procedure di infrazione nei confronti del paese transalpino lunghe quanto inefficaci, risulta evidente se si leggono alcuni dati. Dal 2008, anno in cui scoppiò la crisi finanziaria, ad oggi, l’Europa è uscita trasformata, divisa in due. Il Pil della Grecia è ancora indietro del 24%, quello italiano del 6%, mentre la Francia (+6,7%) e la Germania sono avanti (+10,9%).
Decisamente qualcosa non ha funzionato nell’area euro, dove la turbofinanza e la digitalizzazione, combinate con le misure d’austerità targate Berlino, hanno creato queste faglie tra economie che hanno la stessa moneta. In questo contesto, l’Italia è l’ago della bilancia, può staccare la spina o rianimare un’Unione Europea senza anima politica, a patto che vari riforme credibili e non faccia aumentare il debito con spese infruttifere che non incrementano la domanda interna e gli investimenti.
In gioco ci siamo tutti noi in fondo, divisi tra cicale e formiche.