La pandemia ha messo in evidenza le gravi carenze nel gestire quelle che in Italia erano considerate delle semi-eccellenze come scuola pubblica e sanità. Luoghi comuni e credenze sono crollati, mettendo in evidenza come in Italia il diritto allo studio e il diritto alla salute fossero tutt’altro che pienamente tutelati.
Un ambito, tuttavia, in cui nessuno aveva mai avuto il coraggio di sostenere che lo Stato investisse abbastanza è sicuramente il mondo della ricerca. Ovvero uno degli elementi che si è rilevato essere un enorme valore aggiunto in qualsiasi ambito, ultimo di centinaia di esempi che si potrebbero fare la ricerca per il vaccino.
Nelle classifiche su scala mondiale ed europea in quanto a investimenti pubblici e privati nella ricerca, l’Italia si ricopre di ridicolo in ogni modo. A partire da elementi più elementari, come le poche borse di studio messe a disposizione degli studenti, le tasse record (su cui tuttavia il discorso da fare sarebbe molto più articolato) o il numero di laureati, la situazione degli atenei italiani non prepara il terreno a una buone condizioni per un modo della ricerca in salute.
In Italia solo 6 cittadini ogni 1000 sono ricercatori, contro la media nei Paesi membri dell’OCSE in cui questo dato sale quasi all’1%. La spesa pubblica in ricerca vale lo 0,5% del PIL, con gli investimenti privati si arriva all’1,4%. Proprio la cifra degli investimenti privati è tra le più basse dei Paesi del G8, con l’Italia tra le poche in cui essi valgono meno dell’1% del PIL. Questi dati, già preoccupanti in termini percentuali sul PIL, diventano agghiaccianti se letti nella loro forma quantitativa: l’Italia (spesa pubblica da circa 9 miliardi) investe circa la metà della Francia (18 miliardi) e meno di un terzo della Germania (30 miliardi).
Ma da qualche mese a questa parte, ogni critica all’impegno italiano in questa direzione viene prontamente silenziato con una promessa fatta di poche parole magiche: “Recovery Plan”, “Next Generation EU” o, nella versione italiana, “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”. Gli investimenti europei vedono l’Italia tra i principali Paesi beneficiari del fondo di recupero, se non addirittura il più importante investimento europeo. Qualsiasi voragine verrà colmata con l’aiuto dei soldi in arrivo.
E
infatti, dopo una prima bozza piuttosto claudicante, il 12 gennaio scorso è
stata diffusa una bozza di PNRR in cui veniva esplicitamente citato il Piano Amaldi, ovvero la proposta di
raddoppiare l’investimento pubblico nella ricerca di base e nella ricerca
applicata. L’obiettivo, piuttosto semplice, verrebbe raggiunto con investimento
di 15 miliardi da qui al 2026 grazie ai fondi del piano europeo.
Tutto risolto? La risposta, ovvia, è no. Nonostante sulla spinta dello stesso Piano
Amaldi e dell’opinione pubblica si sia arrivati per l’immediato futuro a una
soluzione ben più prosperosa rispetto agli anni pre-pandemici, il quadro rimane
preoccupante.
Innanzitutto,
spicca una poca chiarezza. I piani con cui attirare fondi, nel mondo della
ricerca, sono almeno tre: il già citato PNRR, che ovviamente presenta
l’opportunità più ghiotta, oltre al Piano Nazionale della
Ricerca,
che a sua volta si sovrappone al programma Horizon Europe. Oltre alla bozza del
PNRR, è assai complicato sintetizzare di quanto aumenteranno i fondi per la
ricerca tra 2021 e 2026/27.
Un secondo aspetto è messo in evidenza da una lettera aperta al
neo-Presidente del Consiglio Draghi firmata, tra le altre e gli altri, da
Amaldi stesso. L’obiettivo del Piano Amaldi si muove su tre linee direttrici
fondamentali:
«[…] si propone di:
1. quadruplicare il finanziamento dei Progetti di Ricerca di Interesse
Nazionale PRIN (3 miliardi in 5 anni);
2. aumentare il numero di dottorandi e reclutare 25.000 nuovi ricercatori al ritmo di 5.000 ricercatori/anno (4 miliardi in 5 anni);
3. investire sulle principali infrastrutture inserite nel recente Piano Nazionale della Ricerca (8 miliardi in 5 anni)».
Come riportato dalla lettera la seconda proposta, forse quella più importante, è completamente assente. Nel rifiuto di assumere ricercatori, e dunque dare lavoro al meglio del futuro del nostro Paese, non si legge solo una semplice miopia, ma una (diabolica) perseveranza nel non riconoscere nei più giovani potenziali ricercatori una risorsa. Se non, addirittura, la spina dorsale di un Paese malandato. Questo aspetto è accentuato, poi, se si considera la sproporzione di fondi dedicata alla ricerca applicata a scapito di quella di base.
Un terzo e quasi logico timore può esserci per chi è
abituato a guardare oltre un palmo dal proprio naso, e cioè alla fine del
decennio. Quando i fondi (non tutti a fondo perduto, peraltro) dei piani
europei si esauriranno e tornerà il vincolo di bilancio, l’Italia tornerà a non
investire nella ricerca?
Se è vero, troppo vero che l’emergenza Covid-19 ha costituito anche
l’opportunità di vedere un’Europa e un’Italia diversa, il rapporto che l’Italia
ha con la ricerca aiuta a disilludere chi nutre speranze. Mentre aspettiamo le
prime misure del governo Draghi, sappiamo che è fin troppo facile che tutto
torni come prima.