Pubblichiamo, su gentile concessione dell’autore, l’articolo apparso ieri su MF-Milano Finanza  

Da alcuni giorni tiene banco la situazione di tensione esistente al confine tra la Bielorussia da una parte e la Polonia, la Lituania e la Lettonia dall’altra: una situazione di crisi che rischia di coinvolgere non solo i Paesi confinari della Bielorussia, ma anche l’Unione europea e la Nato, delle quali tutti e tre i Paesi sono membri.

L’origine della crisi è nota: il regime di Lukashenko, che nelle sue modalità di azione somiglia più a un satrapo dell’Asia Minore che a un leader di un Paese ai confini orientali dell’Unione europea, è ai ferri corti con l’UE e con la Nato da quando, nell’agosto 2020, le elezioni presidenziali, evidentemente truccate, sono state disconosciute dalla comunità internazionale. Alle violenze che sono seguite alle elezioni, l’UE ha risposto con l’adozione di un primo ciclo di sanzioni nell’ottobre 2020 contro la Bielorussia e contro Lukashenko personalmente, con il divieto di ingresso nell’Unione per lui e per alcuni componenti della sua famiglia parte del governo. Poi, una continua escalation con un secondo, un terzo e un quarto ciclo di sanzioni sempre mirate a impedire l’ingresso nell’UE di alcuni “indesiderabili” nonché ostacolare gli affari di imprese bielorusse in maniera mirata. Ma è stato sicuramente il dirottamento del volo Ryanair tra Atene e Vilnius per arrestare un oppositore di Lukashenko, che ha rappresentato la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso, con l’Unione europea che ha vietato il sorvolo della Bielorussia alle Compagnie aeree europee.

A questi atti Lukashenko ha risposto con modalità particolarmente infide: dal giugno 2021 la Bielorussia ha iniziato a organizzare voli e trasferimenti interni per agevolare il transito di migranti verso l’UE, dapprima verso la Lituania e poi verso la Lettonia e la Polonia. Le Compagnie aeree organizzano voli dalla Turchia, dagli Emirati Arabi Uniti, promettendo facili ingressi in Europa dalla porta bielorussa, per emigranti che in maggior parte sono formati da cittadini iracheni, afghani e siriani.

A questa pressione crescente, la Polonia, che spesso costruisce il suo “europeismo” sulla storica funzione – e sulla retorica – di baluardo dalle invasioni dall’est, ha risposto con la forza armata: Varsavia ha dislocato 12mila uomini alle frontiere con la Bielorussia, ha dichiarato lo stato di emergenza nella zona, chiudendo ogni accesso alla zona di confine a giornalisti e osservatori e ha avviato una politica di respingimenti forzati che colpisce indiscriminatamente ogni migrante o richiedente asilo che si affaccia a quella frontiera. Nel contempo, mentre si presenta come baluardo della “fortezza Europa” e costruisce barriere di filo spinato, Varsavia rifiuta ogni aiuto operativo dell’Unione (le offerte di personale Frontex sono state respinte), anche per non dare nessuno spazio negoziale alla esistente polemica con l’UE sullo stato di diritto e sulla superiorità della legislazione UE su quella nazionale.

Quella mostrata dalla Polonia potrebbe essere definita l’Europa dell’emergenza, quella dei respingimenti generalizzati, della morte del diritto di asilo, quella muscolare che in fondo piace a tanti sovranisti, quella che permette di coalizzare consenso interno. Facendo un paragone storico non troppo azzardato, il governo Morawiecki oggi somiglia al governo Skadkowski dell’agosto 1939, quello che mentre temeva Hitler non voleva alcuna presenza, né francese, né britannica, né sovietica (come dargli torto in questo caso) sul suo territorio. Il persistente mito del “facciamo da soli, siamo la grande Polonia” ma, stavolta, in salsa europea.

Ma che dire dell’altra Europa, quella che moltiplica le sanzioni ma non riesce a concretizzare una linea comune sul problema che, alla fine, domina la scena, quello dei migranti? Quante volte abbiamo assistito ad accordi sulla pelle di quei disperati che oggi Polonia e Bielorussia trattano come bersagli da poligono e che ieri la Turchia veniva pagata dall’UE per trattare come pacchi postali?

Ci piace questa seconda Europa? Questa è la migliore alleata della Russia, convitato di pietra sulla scena, che dosa ogni intervento per vedere quanto questo conflitto “ibrido”, a “bassa intensità”, può servire a testare le capacità reattive della NATO, ma non dobbiamo mai dimenticare che sono persone quelle che costituiscono l’oggetto di questo conflitto. Persone che potrebbero essere difese solo da una terza Europa, non quella degli interessi nazionalistici agguerriti e tendenzialmente rissosi; non quella delle chiacchiere costantemente orientate a mettere insieme opportunismo e, di nuovo, interessi nazionali spolverati di umanitarismo. Una terza Europa che si renda conto che una politica estera e una politica di difesa definite con la partecipazione del Parlamento europeo e della Commissione sono ormai drammaticamente necessarie, per superare i veti incrociati all’interno del Consiglio, per dare un senso a una emergenza che in ogni istante può sfuggire di mano alle diplomazie ed essere afferrata dal time-table militare. E allora, forse, sarà troppo tardi.