Ho conosciuto Renata Colorni a Ventotene nell’estate del 2019. Qualche mese prima avevo studiato la biografia di sua mamma, Ursula Hirschmann, in occasione di un intervento a un dibattito alla Casa internazionale delle Donne, ed ero dunque particolarmente curiosa e interessata a parlare personalmente con lei. Di Ursula e non solo.
A Ventotene, dove l’associazione La Nuova Europa, che ho contribuito a fondare cinque anni fa, è impegnata con il progetto Scuola d’Europa, quell’estate abbiamo avuto modo di trascorrere un piacevole tempo insieme e di conoscerci. Renata ha apprezzato il nostro lavoro e il nostro impegno per la causa europeista, tanto che ha accolto di buon grado l’invito a far parte del Comitato scientifico della nostra associazione. E ha accettato di fare l’intervista che pubblichiamo oggi, mentre stiamo per inaugurare sull’isola il primo circolo culturale dedicato a Ursula Hirschmann, di cui ricorre nel 2021 il trentennale della morte (8/1/1991).
La nostra conversazione ha sfiorato molti piani della vita di Renata, che ha come suo tratto distintivo un sincero understatement. Un paio di mesi fa è uscito il suo libro Il mestiere dell’ombra. Tradurre letteratura (Ed. Henry Beyle) una breve e densa autobiografia che riporta, sin dalle prime frasi, la gratitudine verso la madre: “Conosco il tedesco fin da bambina perché mia madre, Ursula Hirschmann, ebrea e socialista berlinese fuggita nel 1933 dalla Germania, donna di luminosa intelligenza e forte volontà, non ha mai voluto separarsi del tutto dalla propria lingua, né permettere che in famiglia essa andasse perduta”. In questo raffinato libriccino l’autrice, che ha da poco lasciato il suo lavoro di dirigente editoriale per I Meridiani Mondadori, dopo un’attività quarantennale di traduttrice letteraria, riflette sulle scelte di una vita. L’amore per la psicoanalisi, che la irradia dopo aver tradotto l’opera omnia di Sigmund Freud per Bollati Boringhieri e la tenta verso la professione psicoanalitica; il rapporto con l’ego degli scrittori visto dalla tana del traduttore, “uno strano animale, timidissimo e protervo, schivo e temerario, pronto a interpretare ruoli e a modulare voci assai diverse […], a restare nell’ombra”; il rapporto con la lingua materna e con quella d’arrivo: “noi che riusciamo a far sì che la nostra lingua si dimostri adatta a ospitare quel testo con onore, a creare per esso uno spazio nuovo nella cultura del nostro Paese”.
Tutto questo sembra molto attinente sia con il profilo intellettuale dei suoi “tre” illustri genitori –Hirschmann, Colorni, Spinelli – sia con un’idea di cultura europea, rafforzata dalla fervida circolazione delle lingue e delle letterature, che la nostra associazione esprime in diversi dibattiti sul valore della memoria.
Cominciò a Ventotene la sua stessa vita, dato che Renata fu concepita qui, quando suo padre, il filosofo Eugenio Colorni, era da un paio di mesi arrivato al confino e sua madre Ursula, ebrea tedesca riparata a Parigi poco prima dell’ascesa di Hitler al potere, aveva avuto il permesso di raggiungere il marito e di abitare con lui e la loro prima figlia sull’isola. Era il 1939, l’anno in cui scoppia la seconda guerra mondiale. L’anno dell’arrivo al confino di coloro che diverranno fraterni amici dei Colorni, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, e con i quali verrà elaborato, tra il 1939 e il 1941, il progetto politico del “Manifesto di Ventotene”, di cui nel 2021 ricorre l’ottantesimo anniversario.
Sull’isola la famiglia Colorni abitava nella casa con i due balconi vicino all’orologio di piazza Castello, la casa dove oggi abita il sindaco. Ci restò per un paio d’anni, fino al ‘41, quando fu trasferita al confino di Melfi. Al nostro primo appuntamento a Ventotene, abbiamo invitato Renata in quella casa (nella foto), la sua casa dei primissimi anni di vita. Era visibilmente emozionata. Non veri e propri ricordi si affacciavano in lei, ma un vissuto, un ritorno alle origini, un richiamo ancestrale per il luogo dove tutto è cominciato. Immediatamente si è sentita di dire: qui è stato scritto il “Manifesto di Ventotene”. A me e agli amici che la accompagnavano è sembrata una notizia ma, nei giorni a seguire, Renata non ha voluto confermarla. Era piuttosto una sensazione che aveva avuto entrando in quella casa, peraltro oggi completamente diversa da come dev’essere stata a quei tempi. Ma non era così importante dove tutto fosse cominciato, quanto tutto ciò che era accaduto. L’incontro tra le persone. Le affinità intellettuali. L’amicizia. L’amore. Una donna che spicca in un mondo tutto maschile: Ursula Hirschmann, sua madre. E due padri importanti: quello naturale, Eugenio Colorni, morto in un agguato nazifascista nel 1944, quando lei aveva poco più di 4 anni, e il compagno di vita di sua mamma, Altiero Spinelli, il padre nobile dell’Europa.
D. Ottant’anni dal Manifesto di Ventotene, trent’anni dalla morte di Ursula. Come ti piace ricordarla?
R. È stata veramente una donna straordinaria e io le devo moltissimo. Non solo perché mi ha insegnato l’indipendenza, la libertà, l’importanza del lavoro, ma perché mi ha regalato l’insegnamento di una lingua, il tedesco, che è stata la mia prima lingua, fondamentale nella mia professione di traduttrice letteraria, per la quale lei è stata sempre un punto di grande riferimento. Parte di questo lavoro è stata la restituzione in italiano di grandi testi della letteratura tedesca; ho tradotto Freud, per esempio. E il capolavoro di Thomas Mann, con il titolo La montagna magica. È stato per me meraviglioso ridare vita al più filosofico dei grandi romanzi di Mann, prediletto da mia madre, libro di straordinaria sapienza e sottigliezza.
D. Nella biografia Ursula Hirschmann una donna per l’Europa (Ed. Ultima Spiaggia, 2019), la storica Silvana Boccanfuso cerca di restituire alla mamma il ruolo che ebbe anche nell’elaborazione del progetto federalista. Si conosce il suo ruolo avuto nel portare il “Manifesto” sulla terraferma, nel diffonderlo negli ambienti liberali e della Resistenza, subito dopo il ’43. Si sa di meno in merito al suo contributo sul piano dei contenuti e dello scambio di idee. Secondo la ricostruzione storica di Boccanfuso sembra che si fosse creata un’intesa intellettuale con Spinelli sin dall’inizio perché entrambi vedevano nell’invasione nazista un grave pericolo per l’Europa. Ursula era ebrea, come anche Colorni, dunque il pericolo lo avvertiva maggiormente. Come ricordi questi due tratti dell’identità di Ursula Hirschmann, il suo essere ebrea e l’essere un’intellettuale?
R. Ursula era una donna molto intelligente e molto raffinata, una grande musicofila, fra l’altro, e aveva un coté intellettuale e di finezza letteraria che Altiero aveva meno e Colorni aveva di più. Era una donna con la quale era necessario stabilire un contatto intellettuale intenso: lei non avrebbe mai accettato una relazione sentimentale, passionale e basta, perché era una donna di grandissima finezza intellettuale. È giusto e lodevole il tentativo della storica Silvana Boccanfuso di restituire a lei una centralità che sicuramente c’è stata, più nella vita di Spinelli che in quella di Colorni. Mio padre era un filosofo con un pensiero estremamente originale e robusto perché si è occupato di filosofia della scienza quando ancora nessuno se ne occupava, e di psicoanalisi, un pioniere dal punto di vista intellettuale e degli studi filosofici. Quando si sono sposati vivevano a Trieste e tra di loro parlavano in tedesco. Si erano conosciuti a Parigi, quando lei, appena ventenne, era scappata da Berlino seguendo il fratello Otto Albert, nell’anno in cui Hitler prendeva il potere. Era già nel partito socialista, insieme al fratello erano già intensamente politicizzati. Ma il loro resterà un rapporto un po’ tormentato, com’è descritto anche nell’autobiografia di Ursula Noi senzapatria, e infatti si separarono mentre eravamo al confino a Melfi, nel ‘43. Colorni scappò e mamma con noi figlie andò a Milano. Il suo essere ebrea non fu mai espresso in chiave religiosa, era un’ebrea socialista laica, ma certo si era resa conto, quando era a Parigi, del pericolo che correva, tant’è che a Berlino non è più tornata fino al 1967 e dopo il ’43, tornata a Milano dal confino di Melfi, riparò in Svizzera anche per sfuggire alle leggi razziali. Alla fine della sua vita, riemergeva dai ricordi della tragedia nazista il trauma della Repubblica di Weimar e lo choc dell’inflazione del marco.
D. I ricordi di Ventotene dei coniugi Ursula e Altiero Spinelli erano ricordi più personali o politici?
R. Quest’amore è nato qui, nel mezzo di un’amicizia fortissima, ma i loro ricordi erano più politici perché a Ventotene non è successo niente. È nato qualcosa nella passione politica, nelle discussioni e passeggiate sull’isola, nello scambio e condivisione di idee, ma si sono reciprocamente dichiarati dopo il nostro trasferimento al confino di Melfi. Hanno cominciato a scriversi, poi si sono rivisti nel ’43 quando Altiero è rientrato in terraferma e si sono sposati. Sono poi tornati insieme a Ventotene nel 1981 per il quarantennale del “Manifesto”, ma la mamma era già malata, dopo l’aneurisma del 1975 ha avuto una lenta ripresa.
D. Ursula ha avuto sei figlie e si è dedicata molto al marito e alla causa federalista. Com’era all’opera?
R. Ursula era un’intellettuale ma al tempo stesso era una donna molto femminile, aveva una grande capacità di stabilire rapporti e contatti e anche un grande fascino. Dal 1937 al ’46, cioè dai 24 anni, ha avuto 5 figlie e poi nel 1955 ha avuto l’ultima figlia, Sara. Adorava essere incinta e adorava i neonati, ma si spendeva molto anche per la causa politica. Negli anni 40, 50 e 60 Ursula è stata la segretaria del Movimento federalista europeo a Roma, in piazza Fontana di Trevi. Sapendo anche molto bene le lingue, aveva fatto molto proselitismo per la causa federalista. Il federalismo fu per lei un modo di vivere la propria identità di intellettuale, di antifascista, di dirigente politica. La politica ha avuto un aspetto di centralità nella vita di mia madre; anche quando era malata tutto ciò che le importava era leggere i giornali che parlavano di politica, è stata la sua vita, è stato il suo amore.
Ursula si è dedicata anche moltissimo al marito. Era tale l’amore di mia madre per Spinelli, tale la dedizione che aveva per lui, per il suo pensiero, per la sua lotta, per la sua battaglia e per il successo di questa battaglia che niente doveva turbarlo. Le cose cambiarono un po’ negli anni 70, quando Altiero divenne commissario e poi parlamentare europeo e si era superato il momento volontaristico appassionato del Movimento federalista in cui erano entrambi impegnati in maniera totalizzante. A lei non piaceva “fare la moglie”, era anticonformista, e si è immediatamente depressa. Non le piaceva questo cambio di ruolo, l’evoluzione della vita coniugale in cui il lavoro politico di Altiero, che aveva condiviso fino a quel momento, ora la coinvolgeva in una forma e in una modalità esistenziale che non le era congeniale, e che non era congeniale alla loro storia d’amore, fondata moltissimo sull’affinità intellettuale. Sono rimasti comunque molto innamorati per tutta la vita, lui aveva una forza, una fisicità, che non ha mai perso nei confronti di mia madre, anche nel periodo della malattia. Poco prima di ammalarsi Ursula aveva cercato di fare una cosa sua, il movimento “Femme pour l’Europe”, unendo la sua passione per il pensiero federalista al desiderio di fare qualcosa per le donne.
Se pensiamo alla sua vita, è stata sempre impegnata e sempre in movimento: Berlino, Parigi, Trieste, Venezia, Ventotene, Melfi, Milano, Bellinzona, Bruxelles, Roma. E sempre fedele ai propri ideali. Si definiva una déraciné, senza radici, una “senza patria”, come infatti intitolerà la sua biografia incompiuta. E proprio per questo trovava tanto facile essere europea.