di Guglielmo Salimei

Se vero è che il processo di integrazione europea ha garantito al Vecchio Continente settant’anni di pace, proteggendolo dalle folli brame imperialiste degli Stati nazionali, altrettanto vero è che durante tale processo si sono affermate diverse divisioni, o fratture, fra gli Stati parte dell’Ue. Non è un caso che gran parte delle fratture si siano consolidate negli ultimi trent’anni; infatti le novità apportate dal Trattato di Maastricht nel ’92, unite alle nuove sfide della società globalizzata (le migrazioni di massa, la lotta all’inquinamento dell’ambiente, il terrorismo islamico ecc.), hanno finito per provocare delle forti polarizzazioni all’interno dell’Unione.

In primis il Trattato di Maastricht, prevedendo il passaggio da un’Unione puramente economica a un’Unione politica, ha provocato il crearsi di una frattura tra i Paesi che volevano portare avanti tale transizione a un approccio comunitario completo, come la Francia, l’Italia e la Germania, e i Paesi che invece sono contrari alla visione politica del processo d’integrazione e che volevano circoscrivere l’approccio comunitario e sovra-nazionale al solo ambito economico. Tra questi spicca naturalmente la Gran Bretagna, sempre molto restia a ogni tentativo di coesione politica che comprometta anche solo una piccola quota di sovranità, e figurano anche alcuni Paesi del Nord-Europa.

Se tale frattura era stata contenuta nell’immediato dopo-Maastricht attraverso la concessione di clausole opt-out, grazie alle quali gli Stati potevano escludersi dalle materie che richiedevano una forte integrazione e cooperazione (questa clausola fu concessa ad esempio al Regno Unito e alla Danimarca in occasione della decisione di adottare una moneta unica per l’Unione europea e difatti questi due Paesi furono gli unici autorizzati a non adottare l’euro), l’ascesa di Nigel Farage alla guida dell’UKIP e il conseguente rafforzamento delle posizioni euroscettiche hanno scoperchiato il vaso di Pandora dando il là al processo che ha portato alla Brexit.

La seconda frattura è quella tra i Paesi del Nord (Olanda, Germania, Svezia, Austria) e i Paesi del Sud (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo). Le divergenze che stanno alla base della frattura fra i due gruppi sono di natura puramente economica e sono state esasperate con la crisi dell’Eurozona del 2009, che sarebbe meglio chiamare crisi del debito sovrano europeo. In pratica la crisi economica del 2008 aveva colpito in particolare un gran numero di istituti di credito europei, i quali furono salvati da importanti interventi pubblici. Questi ultimi peggiorarono i deficit di bilancio degli Stati, provocando inoltre un aumento del debito pubblico; e proprio su questo punto si manifestò il contrasto tra i due gruppi. Infatti, se limitati sono stati gli effetti di questo aumento del debito pubblico sui Paesi core (Germania e altri del blocco del Nord), i quali prima della crisi si erano contraddistinti per un contenuto livello di debito, decisamente più gravi furono gli effetti sui Paesi del blocco Sud, che invece erano caratterizzati da alti livelli di debito pubblico.

Questo cleavage Nord/Sud è nuovamente salito agli onori della cronaca in occasione della recente crisi economica dovuta alla pandemia Covid-19 e in questo caso si è focalizzato sulle misure da prendere per far fronte alla crisi. Misure al centro della discussione anche del prossimo Consiglio europeo. I Paesi del Sud insistono per pacchetti di misure che prevedano l’emissione di eurobond, titoli di debito tramite cui tutti gli Stati diventano responsabili del debito, mentre gli Stati del Nord sono restii all’adozione di misure che prevedano la mutualizzazione del debito passato.

La terza frattura da analizzare è quella tra i Paesi del blocco di Visegràd (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) e i Paesi fondatori, come Germania, Francia e Italia. Qui le divergenze che stanno alla base della frattura riguardano la questione dell’accoglienza dei migranti e dei rifugiati. Infatti, se i paesi fondatori hanno espresso più volte l’intenzione di riformare il trattato di Dublino che regola l’immigrazione, i Paesi di Visegràd si sono sempre opposti a tale riforma, finalizzata a un ricalcolo della quota di migranti da distribuire nell’area Ue in modo da evitare che l’onere dell’accoglienza dei migranti sia tutto sulle spalle dei Paesi di primo approdo (soprattutto Italia e Grecia). I Paesi di Visegràd sono caratterizzati da governi xenofobi che vedono l’accoglienza come una minaccia all’integrità della nazione e si sono in passato contraddistinti anche per gesti molto forti in proposito, come la costruzione di un muro al confine ungherese da parte del primo ministro Viktor Orbàn, e per un linguaggio molto diretto e semplice, dotato di un massiccio uso di slogan. In virtù anche di quest’ultima caratteristica non potevano che stringere rapporti con i molti movimenti sovranisti e di destra presenti nei Paesi fondatori, come la Lega, il Front National, Alba Dorata, Vox, confortati dalla presenza, all’interno dell’Unione, di governi che avevano la loro stessa linea riguardo alla questione immigrazione (ovvero, frontiere chiuse e porti chiusi). Dal punto di vista decisionale i governi di Visegràd hanno messo in atto un meccanismo molto semplice: mettere il veto praticamente su ogni iniziativa legislativa promossa dai vertici Ue, al fine di paralizzare l’attività politica delle istituzioni europee. Esempio lampante di ciò è la scelta operata da Orbàn lo scorso maggio di non ratificare la Convenzione contro la violenza di genere, adducendo come scusa il fatto che il documento promuove l’ideologia gender.