di Nicoletta Pirozzi


Pubblichiamo per gentile concessione dell’autrice da www.mondodem.it

La situazione di crisi che si è prodotta prima in Italia e poi in tutta Europa a causa della diffusione del COVID-19 ha suscitato, tra le altre cose, un dibattito su una percepita assenza dell’Unione europea ed una supposta scarsa solidarietà tra i paesi membri, spesso in contrapposizione ad una presunta vicinanza benevola di altri attori, in primo luogo la Cina (tra poco, verosimilmente, si aggiungerà anche la Russia). È legittimo aspettarsi un sostegno speciale dai paesi che hanno deciso di aderire all’UE e che hanno ratificato i Trattati, i quali fanno esplicito riferimento al principio di solidarietà tra i valori fondanti (art. 2 TUE) e tra gli obiettivi dell’Unione (art. 3 TUE). E tuttavia, non è realistico pensare che in un momento di grave emergenza come quello che si produce in una pandemia i governi nazionali non reagiscano in primo luogo a tutela dei propri cittadini, mettendo in campo misure che proteggano i confini, che assicurino gli approvvigionamenti di materiale medico, che salvaguardino la tenuta sociale ed economica. Del resto, è all’opinione pubblica nazionale che ciascun governo risponde e alla quale deve la propria esistenza. È in quest’ottica che va letta la decisione iniziale di ben sette paesi membri – Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Danimarca, Cipro, Lettonia e Lituania – di chiudere i propri confini e di sospendere il sistema di Schengen, oppure quella di Francia e Germania di bloccare la fornitura di materiale medico, tra cui le preziose mascherine, agli altri Stati dell’Unione. Anche sul fronte della comunicazione, i discorsi alla nazione di Angela Merkel del
18 marzo scorso e di Giuseppe Conte del 21 marzo si sono concentrati sul ruolo dello Stato nella risposta all’emergenza e non hanno menzionato nemmeno una volta il ruolo dell’Unione europea. Questi fatti dovrebbero indurre il campo europeista a smettere di presentare l’Unione come
una comunità i cui membri pensano (o dovrebbero pensare) solo al bene comune, e non al proprio tornaconto. Non è mai stato questo il caso, e la costante delusione di questa irrealistica aspettativa rischia di diminuire ulteriormente il sostegno dei cittadini all’UE. Invece, in una circostanza come questa occorre evidenziare il vero, prezioso valore delle istituzioni europee e delle competenze loro attribuite dagli Stati membri. La Commissione europea ha messo in campo misure importanti come la chiusura delle frontiere esterne dell’Unione e l’adozione di linee guida per la gestione dei confini interni per salvaguardare il mercato interno e le filiere di produzione essenziali. Inoltre, attraverso la sua azione politica, ha agito su Parigi e Berlino per sbloccare la fornitura di materiale medico
protettivo, tant’è vero che il 20 marzo sono arrivate in Italia 7 tonnellate di attrezzature, apparati di supporto e materiale sanitario da Colonia e destinate agli ospedali più colpiti. Importanti anche le misure di sostegno all’economia, a cominciare dall’allentamento delle regole fiscali del Patto di stabilità per permettere agli Stati membri di fare gli interventi necessari a rispondere alla crisi. La Banca Centrale Europea, nonostante un’improvvida
iniziale dichiarazione di Christine Lagarde, ha deciso di adottare un quantitative easing di dimensione massiccia – pari a 750 miliardi di euro – per l’acquisto di titoli pubblici e privati con l’obiettivo di sconfiggere o almeno mitigare l’emergenza economica, intervento senza il quale le finanze italiane avrebbero rischiato di divenire preda della speculazione
internazionale con conseguenze imprevedibili. Oggi si ragiona su nuove misure per il futuro, inclusa l’emissione di Coronabonds, ovvero l’emissione di bond comuni all’area euro, in grado di finanziare congiuntamente la risposta allo shock economico generato dalla crisi. Una vera rivoluzione copernicana della governance economica europea, perché introduce il principio di “comunitarizzazione” di una parte dei debiti pubblici nazionali.
Le istituzioni di Bruxelles arrivano dunque dove i governi nazionali, per calcolo politico o mancanza di risorse, non vogliono o non possono arrivare, garantendo a tutti i cittadini europei misure di protezione sociale ed economica. E avrebbero potuto fare ancora di più, ad esempio se la materia sanitaria non fosse stata competenza esclusiva degli Stati membri ma affidata all’Unione, o se l’Unione fosse dotata di un servizio di protezione civile europeo e non soltanto di un meccanismo di coordinamento dei servizi di protezione civile nazionali. È questo il senso dell’adesione al progetto europeo: garantirsi un cappello protettivo, un’istanza superiore che si aggiunge senza minacciarla a quella nazionale.
Questa emergenza, per sua natura transnazionale, lungi dall’alimentare sovranismi e riappropriazione di competenze cedute all’Unione, deve dunque farci riflettere sull’importanza di meccanismi continentali e globali che sopperiscono alle carenze nazionali. Una garanzia per il presente e un monito per il futuro a rafforzare ancora gli strumenti comunitari e a realizzare il principio di solidarietà nella maniera più sicura, ovvero
affidandosi a istituzioni sovranazionali che possano coordinare l’azione delle capitali e agire in autonomia per salvaguardare il benessere dei popoli europei. Dovrebbe essere abbastanza per allontanare le sirene del populismo nazionalista e dell’euroscetticismo almeno per il prossimo ventennio.