Secondo Tim Berners-Lee, l’inventore di internet, l’idea anarchico-egualitaria con cui concepì la rete non esiste più; in un’intervista a Vanity Fair ha affermato che “L’uomo ha avuto incredibilmente delle grandi opportunità. Tutto si basava sull’assenza di un’autorità centrale alla quale chiedere permesso. La sensazione del potere dell’individuo è ciò che abbiamo perso. Questo potere non è stato rubato, siamo stati noi stessi, miliardi di noi, a regalarlo a Facebook, Google e Amazon che ora monopolizzano quasi tutto ciò che accade su internet, da quello che compriamo alla prima notizia che possiamo leggere”. Di sapore anarchico è rimasto il fatto che la rete continua ad essere teatro di massicce violazioni della proprietà intellettuale, senza che ciò susciti particolare riprovazione nell’opinione pubblica.

È di qualche giorno fa la notizia di una vasta operazione giudiziaria a livello europeo, condotta in Italia dalla Guardia di Finanza, nei confronti di un’organizzazione criminale che controllava IPTV (tv via internet) illegali con circa 5 milioni di abbonati solo in Italia. Dove con 5 euro al mese si poteva usufruire di decine di migliaia di canali, rubando contenuti a Sky, Dazn, Netflix, Infinity, Eleven Sport e quasi tutte le altre pay tv del pianeta, compreso l’accesso ai film ancora in sala cinematografica. Si pagava con carta prepagata, la centrale mandava un codice attraverso cui scaricare un software e il gioco era fatto. Quindi 5 milioni di concittadini, che molto probabilmente non ruberebbero nemmeno una mela in frutteria, si rendono di fatto complici di un colossale furto continuato a danno di autori, produttori di contenuti, società sportive, imprese televisive e delle migliaia di lavoratori dei settori interessati (valutato in circa un miliardo di euro l’anno); per un limitato vantaggio economico personale che procura enormi entrate illegali a organizzazioni criminali sconosciute.

Stesso discorso per un fenomeno anch’esso oggetto di una recente inchiesta della Polizia Postale e delle Comunicazioni: la versione digitale di quasi tutti i quotidiani italiani trasmessa da truffatori informatici, gratis o per pochi spiccioli, tramite notissime applicazioni di messaggistica istantanea a vari gruppi e comunità per un totale di  500.000 utenti; con un’aggravante in questo caso, oltre al furto: si contribuisce a mettere in ginocchio l’editoria, la libera stampa come si diceva una volta, che negli ultimi anni ha perso metà delle copie vendute, metà degli introiti pubblicitari e, per simmetria, metà dei giornalisti. Quindi chi distribuisce e legge furtivamente i giornali, di fatto, mette a rischio la libertà di stampa e di informazione e attenta a diritti costituzionalmente tutelati. Che sono anche suoi diritti.

Questione diversa quella del rifiuto di qualche giorno fa da parte di Google di sedersi al tavolo con gli editori francesi per dare attuazione alla direttiva UE sul copyright, che in Francia, primo paese europeo a recepirla, entrerà in vigore il prossimo 24 ottobre. La direttiva, pubblicata lo scorso 17 maggio in Gazzetta Ufficiale, data dalla quale i paesi membri avranno due anni per recepirla con legge nel proprio ordinamento, è stata varata dopo una lunga battaglia politico-parlamentare e nonostante la contrarietà, accompagnata da un imponente fuoco di sbarramento lobbistico, da parte di tutte le grandi piattaforme digitali. In estrema sintesi la direttiva conferisce ai produttori di contenuti, e quindi anche agli editori, il diritto di chiedere un compenso adeguato per lo sfruttamento online dei propri contenuti; nella trasposizione francese si prevede l’obbligo per le piattaforme che pubblicano brevi estratti, foto o filmati a corredo dell’articolo che viene indicizzato in una ricerca, di remunerare con accordi di licenza l’editore.

Ed è proprio a quest’obbligo che Google si rifiuta di ottemperare, sostenendo che Google News, il suo aggregatore di notizie, in Europa porta otto miliardi di visite ai siti di informazione e quindi vantaggi in termini di diffusione e popolarità dei siti, potenzialmente monetizzabili a colpi di click. Quindi afferma che non pagherà per gli estratti con immagini, che considera pubblicità gratuita per gli editori e non compariranno più in Google News; le testate che vogliono continuare a veder pubblicati i loro estratti rinuncino espressamente ai compensi. Gli editori europei rispondono ricordando che Google vuol continuare a sfruttare gratis i contenuti editoriali di qualità e che l’80% dei ricavi pubblicitari che vengono generati dal lavoro editoriale online viene assorbito da Google e solo il 20% torna alle case editrici, che però sopportano tutti i costi e le responsabilità. E avanzano anche l’ipotesi che il rifiuto di Google potrebbe integrare una violazione antitrust, vista la sua conclamata posizione dominante.

Da ultimo una buona notizia: l’industria musicale fu la prima ad essere attaccata e quasi distrutta dalla pirateria online; i dati attualmente mostrano il dimezzamento della percentuale di brani scaricati illegalmente: nuove pratiche commerciali adatte alla fruizione musicale online, unite ad efficaci regole di contrasto alla pirateria messe in campo dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni col supporto dell’autorità giudiziaria, stanno restituendo legalità a questo mercato.

Nuovi modelli di business, buone regole applicate con severità e capacità tecnologiche, repressione dei comportamenti illegali, monitoraggio attento e contenimento dello strapotere delle piattaforme digitali da parte delle autorità competenti e, ultima ma non meno importante, l’indispensabile consapevolezza dell’individuo che appartenere ad una comunità significa anche riconoscere il giusto compenso a chi lavora e produce, evitando così di finanziare più o meno consapevolmente attività criminali. Questo è il mix di interventi valido per ogni cosa in rete.

Guido Stazi