La giornalista Rai autrice di “Europa Anno Zero. Il ritorno dei nazionalismi ha ricevuto l’ambito riconoscimento in chiusura della 38°edizione del Seminario di Ventotene – Il federalismo in Europa e nel
mondo. Ecco il testo dell’intervento per gentile concessione dell’autrice:
Buongiorno a tutti e grazie per queste parole e per questo premio.
Non sono sicura di meritarlo, è un premio importante, dal valore simbolico fortissimo. Mi onora
riceverlo, e mi onora riceverlo qui, su questa isola, l’isola in cui quasi ottant’anni fa ormai è stato
concepito uno dei manifesti politici più illuminati e lungimiranti della storia di questo continente.
Dicevo, non so che cosa ho fatto per meritarlo, ma so che cosa ho avuto l’opportunità di fare – in
questi ultimi anni – per cercare di capire qualcosa di quello che stava succedendo all’Europa, alle
sue istituzioni, ai suoi popoli, alle sue classi dirigenti.
Sono stati anni vorticosi, disordinati, pericolosi.
Spesso ha prevalso la maleducazione, la rabbia, il caos, e ha fatto difetto la lucidità, ’empatia, la
visione d’insieme. Altiero Spinelli lasciando quest’isola a bordo di un motopeschereccio, la mattina
del 18 agosto del 1943, dopo 16 anni di confino, scrisse che a Ventotene aveva riscoperto “il piacere
del pensar pulito”. Ecco, se dovessi dire cosa ho capito in questi anni di viaggi e di incontri per
l’Europa, è che c’è un immenso, radicale bisogno di tornare al piacere e alla necessità di “pensar
pulito”: perché pensare pulito significa parlare pulito, e parlare pulito significa agire pulito.
Sono stati anni per molti aspetti tossici, ingiusti, avvelenati. Il virus del nazionalismo – per dirla con
le parole del Manifesto – è tornato a forgiare “la lava incandescente delle passioni popolari”
facendola solidificare poi nel “vecchio stampo”, quello reazionario. E questo vale tanto per i paesi
governati da forze sovraniste, tanto per quelli in cui queste forze sono all’opposizione, perché
spesso – troppo spesso – come elefanti in mezzo alla stanza hanno monopolizzato le agende
politiche, le parole d’ordine, le scalette dei talk show.
E così mi sono trovata a ricevere, alcuni mesi fa, dopo un incontro in un liceo classico, in Puglia, un
messaggio privato, su Fb, di Caterina, una ragazza di sedici anni alla quale avevo rivolto la
domanda: “che cos’è per te l’Europa?”
Il messaggio di Caterina iniziava così: “Dopo la sua domanda, Il buio, il buio più totale. No, per me
l’Europa non vuol dire niente, non è niente. Non mi sono mai chiesta cosa fosse per me l’Europa,
tanto che se un giorno qualcuno mi chiedesse la mia identità risponderei di impulso, sono italiana!
Non europea. Non so se sia grave o meno, resta il fatto che ho in tasca una moneta che è uguale a
quella della francia o della germania e non ci ho mai riflettuto, che in me è insito un pensiero
secondo cui “si stava meglio prima! Prima dell’europa, prima dell’euro…”. Questo ho sempre sentito
dire e questo io dico. Io e l’Europa siamo nate quasi insieme, ma non ci ho mai fatto veramente
caso.. avrà scelto un momento sbagliato per nascere? Sarà forse che in questi anni di stenti, di fatica
ad arrivare a fine mese, di – ormai – indifferenza, le sia stata addossata una colpa che in realtà non
ha? O forse è proprio lei la causa di tutto?”
Ecco. A Caterina vorrei dire tante cose. Intanto che mi dispiace, che mi dispiace che si sia creato
nelle ragazze e nei ragazzi della sua età un sentimento di indifferenza, se non di ostilità verso
l’Europa, senza aver almeno provato a dare spiegazioni alle domande: ma cosa c’era prima
dell’Europa? E perché abbiamo scelto di far parte di questa famiglia? Quindi prima di tutto vorrei
chiederle scusa. Per non aver detto abbastanza, per aver dato per scontato, per aver raccontato poco
e male.
Vorrei anche dire a Caterina che c’è un libro, un libro che Tomas Mann ha definito un
“monumento”, e che raccoglie le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea. Ragazzi
poco più grandi di lei, ragazzi italiani, greci, spagnoli, norvegesi, polacchi, ragazzi che hanno scritto
queste lettere aspettando di essere ammazzati, alcune di queste lettere le hanno incise sulle pareti
delle celle che da lì a poco si sarebbero trasformate in camere di morte. Ragazzi a cui la furia della
guerra alimentata dai nazionalismi non ha dato il tempo di diventare vecchi. Uno di loro, salutando
la sua famiglia infondo alla lettera ha scritto: “Sai papà, infondo è bello morire nella speranza di un
futuro migliore per l’umanità intera”. E così è stato: dall’inferno della seconda guerra mondiale,
dalle interruzioni premature della vita di quei giovani, sono sgorgati 70 anni di pace, e quella che è
stata definita “la più grande trasformazione volontaria della storia del nostro continente”, ebbene sì,
l’Unione Europea. Proprio lei.
Eppure, se la memoria latita, se Caterina tutto questo non lo sa, e se non lo difende, la testimonianza
di quei ragazzi rischia di non sopravvivere alla marea che monta e che, dall’oblio, trova giovamento.
Per dirla con Paul Valery – non è impossibile “ricolare a picco negli abissi inesplorabili dei secoli”.
E se è vero che la storia non si ripete mai uguale, a volte tuttavia ripropone umori e circostanze con
tale somiglianza che il solo pensiero fa raggelare il sangue. Nel 1932, un anno prima che le sue
opere fossero bruciate dai nazisti, Stephen Zweig in un accorato appello agli europei diceva che
c’era bisogno di una “disintossicazione morale” dell’Europa, perché “sia gli individui sia gli stati –
scriveva – sembrano più inclini a odiarsi l’un l’altro, e la diffidenza reciproca si dimostra
smisuratamente maggiore della fiducia”. E negli stessi anni, nel cuore della Germania, a Dresda, il
filologo ebreo Viktor Klemperer a proposito della lingua usata dai nazisti, piegata alla più feroce
delle ideologie, una lingua senza subordinate né punti interrogativi, una lingua povera e piena di
parole d’ordine, scriveva: “le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza
saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico”.
Solo pochi giorni fa in Germania alle elezioni regionali il partito di ultra destra Alternative fur
Deutchland ha sfiorato il 28% in land come la Sassonia, diventando primo partito tra i ragazzi dai
18 ai 29 anni. Vale forse la pena ricordare che Adf è quel partito che dopo settant’anni ha
rispolverato parole d’ordine come “volk- popolo, inteso in senso omogeneo, monolitico – waterland
– patria, intesa in senso etnonazionalista – o lugenpresse, termine con cui i nazisti indicavano i
giornalisti, definendoli stampa bugiarda”.
A proposito di parole, e di arsenico. Quando ho intervistato nel suo ufficio di Dresda l’ex segretaria
di Alternative fur Deutchland – Frauke Petry – lei mi disse con un certo candore che avrebbe voluto
portare tutti i richiedenti asilo in due isole extra europee, una per soli uomini e una per donne e
bambini, così, a tempo indeterminato, “almeno – disse – gli passa la voglia di venire in Europa”.
“Certo – aggiunse, seria – dovrebbero essere trattati con umanità”. Meno male, pensai, mentre la
mia mente non poté fare a meno di correre, non senza un brivido, a quel “piano Madagascar” che
nel 1940 i nazisti avevano immaginato per gli ebrei. Isole di confino per persone indesiderate. E
pensare che la donna che avevo davanti, Frauke Petry, da lì a poco avrebbe lasciato la segreteria del
partito perché considerata “troppo moderata”.
Ultimamente si fa un gran parlare della necessità di un “nuovo umanesimo”, e come non essere
d’accordo. Ma non ci può sfuggire la radice della parola umanesimo, che porta dritta una domanda:
può esistere un nuovo umanesimo senza il principio di umanità?
Senza arrivare alle isole di confino, i bambini lasciati per giorni e settimane a vomitare a bordo di
navi che non vengono fatte attraccare in porto sono la negazione del principio di umanità, e rendono
vano qualsiasi richiamo – per quanto suggestivo – ad un nuovo umanesimo. Ma tutto questo non
c’entra con la narrazione delle vittime, dei poveri a cui tendere cristianamente la mano, o meglio:
non è questo il punto. Tutto questo ha molto più a che vedere, per esempio, con l’articolo 2 del
trattato di Lisbona – al suo richiamo al rispetto della dignità umana, ai diritti dell’uomo e alla
protezione dei diritti del bambino. Perché è l’ora di recuperare un approccio laico, illuminista,
razionale – che non sconfessa affatto il sentire profondo dell’umana pietas – ma non indugia – a fin
di bene o a fin di male – nelle retoriche contrapposte e tutte emotive fatte sulla pelle degli altri. Non
c’è bisogno di avere un animo sensibile o di essere cattolici per dire che certi comportamenti sono
contrari ai principi fondativi della nostra unione, punto. Derogare sui principi di fondo è
l’anticamera della corruzione. E l’Europa immaginata da Kant, da Beccaria, da Jean Monnet, da
Simone Veil e da Altiero Spinelli non può essere un’Europa moralmente corrotta, in cambio di una
dose spacciata di real politik, peraltro – diciamolo – di scarsissima qualità.
Vorrei poi dire a Caterina che i pericoli non arrivano solo da un passato che sembra a volte voler
tornare, ma anche da un presente fatto di virate più o meno violente verso approdi poco democratici
all'interno della stessa comunità europea. In nome della sicurezza, dell'omogeneità, della protezione,
si affaccia una certa tentazione di separare il concetto di democrazia dai valori liberali che negli
ultimi decenni hanno accompagnato il nostro vivere comune. In una recente intervista Victor Orban
ha dichiarato: “Io che amo la libertà DEVO essere illiberale”. Ecco, c’è tutto un compendio di valori
in questa apparente capriola lessicale: un’allergia per i principi fondativi su cui si reggono le nostre
istituzioni, per i principi di check and balance che sono l’architrave del buon funzionamento
democratico. Principi illiberali ribaditi con fierezza nello spezzone di intervista che vi ho mostrato all’inizio, dal filosofo russo Dugin, consigliere di Putin molto amico del nostro (ormai ex) ministro
dell’Interno.
E difendere certi principi non significa non riconoscere anche le colpe dei “liberali”, ma
comprendere che non è tornando indietro che si superano le contraddizioni del presente.
Nel bel libro di Daniel Ziblatt “Come muoiono le democrazie” viene spiegato bene questo piano
inclinato, questa recessione globale dei principi democratici, anche al di là dei confini del vecchio
continente, perché oggi i colpi di stato vanno poco di moda – scrive Ziblatt – ma le tentazioni
autoritarie si riaffacciano alle nostre porte. L’Europa è circondata da cosiddette “democrature” –
paesi in cui i giornalisti che non rilanciano le veline del governo vanno in prigione, le minoranze
vivono nella paura e i processi si fanno anche senza le prove. La sola idea che alcuni stati europei
possano ispirarsi a questi modelli dovrebbe farci avere un sussulto, perché se esiste il principio di
“europeità” si dovrebbe basare proprio su questo: sul rispetto dello stato di diritto.
In una delle sue “lettere aperte” sull’Europa lo scrittore slavo Predrag Matvejevic distingueva tra
“l’identità dell'essere” – la lingua, il colore della pelle, il territorio in cui siamo nati – e “l’identità del fare”, che trasforma le diversità in agire comune, in visione collettiva, in superamento delle
particolarità, senza cancellarle, ma senza che diventino fossati di diversità e ostilità.
E’ “l’identità del fare” che oggi ci serve per completare il progetto europeo immaginato dai padri
fondatori. E non penso solo alle grandi, necessarie, riforme – dall’unione economica e bancaria alla
difesa comune – ma anche al rafforzamento dei meccanismi democratici che accorcino le distanze
tra i cittadini e l’unione. Ed è un bel segnale che proprio quest’ultimo aspetto sia stato sottolineato
dalla nuova presidente della commissione Ursula Von der Leyen nel suo discorso di insediamento.
Il parlamento europeo non è un poltronificio, né un organo ausiliario rispetto ai singoli governi
nazionali, ma è il luogo sovrano della nostra democrazia: spetta anche a noi giornalisti raccontarlo
meglio, essere ponte tra quell’Assemblea e tutti i cittadini, anche coloro che abitano nei luoghi più
periferici.
Spesso andando in giro per il continente ho incontrato cittadini arrabbiati, delusi, che vedevano
l’Europa come un mostro senza volto, coacervo di burocrati senz’anima. Ricordo un signore sulla
sessantina, un venditore di tessuti nel mercato di in una cittadina del Regno Unito che all’indomani
della Brexit mi disse che aveva votato “leave” perché da alcuni anni la gente le lenzuola le
comprava nelle grandi piattaforme online e il suo commercio andava a rotoli. Chissà se oggi – 39
mesi dopo quell’incontro – quel venditore di tessuti si è pentito di aver sbagliato bersaglio. Chissà se
qualcuno gli ha spiegato che è proprio la vituperata Europa ad aver chiesto di pagare multe salate ai
colossi del web che eludono le tasse, mentre i suoi governanti, che avevano promesso ricchezza e
prosperità senza i lacci europei, sono ancora lì che si affannano per capire come uscire dal caos in
cui hanno gettato il paese. Ordeeer, ordeer!, ha gridato decine di volte lo speaker della Camera
inglese John Bercow in questi mesi, nel tentativo di dare una disciplina a una delle più antiche e
illustri assemblee rappresentative del vecchio continente che alcuni cercavano di trasformare in
un’arena da stadio. Ordine, ordine. Calma. Lucidità. Pensare pulito. Vale per il Regno Unito, vale
per l’Europa intera: un monito a resistere alla spirale creata ad arte dagli “ingegneri del caos”, dai
fautori di questo nuovo tecnopopulismo che inquina il dibattito di false notizie, di verità manipolate,
di informazioni tossiche. E ancora a proposito di Brexit, mi ha colpito molto la dichiarazione di
Dominic Cummings, il direttore della campagna pro-leave, svelare che nelle 10 settimane prima del
voto era stato assunto un esercito di fisici e di ingegneri in grado di produrre 1 miliardo -1 miliardo
– di messaggi digitali personalizzati, principalmente su Fb ma non solo, per far apparire le
istituzioni europee come la causa di tutti in mali. Lo chiamano micro-targeting, ma la traduzione
vera è spazzatura. Solo che quelle menzogne virtuali hanno avuto una ricaduta nella vita reale, e
chissà quali conseguenze per i cittadini nel futuro prossimo.
La domanda è: abbiamo noi gli anticorpi per difenderci da tutto questo? Difficile rispondere con
sicurezza. Ma se non vogliamo finire risucchiati nella propaganda non abbiamo molta scelta :
dobbiamo tutti ascoltare quel richiamo all’order, alla razionalità, ad un approccio non incendiario al
vivere comune. Leggere, informarsi, riflettere. E recuperare quell’identià del FARE di cui parlava
Matvejecic, che ci rende solidi e uniti.
E a proposito del “fare”, lo diceva già Pericle, nel V secolo: “Noi ad Atene facciamo così”,
ricordando i valori di quella “scuola dell’Ellade” come il rispetto dell’altro, la libertà, la democrazia,
il libero confronto delle idee, l’apertura allo straniero.
Vorrei quindi concludere dicendo a Caterina, e anche a voi tutti oggi qui, che anche noi dovremmo
iniziare a dire “Qui in Europa facciamo così”: con orgoglio, con fierezza, con senso di
responsabilità. E con la voglia di “pensare pulito”.
Grazie a tutti.
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