C’è da chiedersi chi governa davvero l’Italia. L’esecutivo in carica, che prova, con alterne vicende, spesso piuttosto fallimentari, di fare il possibile per redistribuire un po’ il reddito, chi le presta ogni dodici mesi 400 miliardi di euro o il caso, guidato da mano ferma dal Capo dello Stato?
La domanda torna prepotentemente in auge a conclusione di un paio di sedute di borsa spumeggianti e lo spread in calo sotto i 200 punti. Nonostante le dimissioni del governo Conte, nonostante l’avvio di un periodo di forte incertezza, nonostante l’avvio complesso delle consultazioni che ha indispettito il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Molti analisti in queste ore hanno messo in luce come la situazione fosse troppo pregiudicata – troppe incongruenze, troppi stop, troppa improvvisazione – per poter puntare ancora sull’Italia e dunque la caduta del gabinetto gialloverde ha liberato il campo dall’ipotesi che questo esecutivo potesse restare ancora in sella con il suo carico di contraddizioni, per giunta piuttosto isolato in Europa, a causa della forte sterzata leghista impressa dopo le elezioni comunitarie.
Ma questa lettura rischia di essere un po’ troppo superficiale per essere vera, considerato che ad agosto gli scambi sono piuttosto asfittici e i veri giochi si faranno in autunno con la legge di bilancio.
Non basta la fine di un governo mal visto dai mercati per giustificare i rialzi di queste ore. Quello che gli operatori credono, o meglio, auspicano, è la nascita di un esecutivo a trazione Pd-Movimento Cinquestelle, magari che abbia come programma i cinque punti indicati dalla direzione del Nazareno, ma che sia soprattutto guidato dall’uomo di Francoforte. Mario Draghi è infatti il sogno di ogni responsabile che ha deciso dal dibattito a Palazzo Madama di provare a dare il suo contributo alla nascita di un governo di legislatura, leggasi dalle parti di Matteo Salvini, ribaltone. Lo coltivano dalle parti del Pd almeno da un paio danni, a causa della tragica carenza di leadership che affligge il partito. Lo auspicano da un lustro quel che resta dei poteri forti.
Ma l’ex governatore davvero accetterebbe un incarico così pesante da far tremare i polsi a qualsiasi altro premier? È quanto si chiedono tutti in questo momento, probabilmente dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha iniziato le sue rapide consultazioni, ai capi del Partito Democratico, che nella riserva della nazione, la Banca d’Italia, hanno sempre mostrato di credere molto. Dall’offerta, declinata, ad Antonio Fazio, a guidare un’alleanza di centrosinistra da contrapporre a Silvio Berlusconi, a Carlo Azeglio Ciampi, prima Presidente del Consiglio tecnico, poi ministro del Tesoro politico con Prodi, infine Presidente della Repubblica, per finire col compianto Fabrizio Saccomanni, numero uno a via XX Settembre nell’esecutivo di Enrico Letta, Via Nazionale da almeno 25 anni ha sempre rappresentato un porto sicuro per chi cercasse di affidarle lavori molto complessi: tipo governare gli italiani durante le crisi finanziarie o le difficoltà politiche.
Prima di sapere se il Presidente della Bce, in uscita ad ottobre, potrebbe essere disponibile ad un tale incarico – e chi lo conosce bene sa che lo rifugge nella maniera più assoluta e solo un forte pressing del Colle potrebbe fargli cambiare idea – c’è da chiedersi però perché gli eredi del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana, siano sempre alla ricerca di un papa straniero. Come se loro, oltre a non intercettare più le esigenze dell’elettorato di riferimento, non fossero nemmeno in grado di capire le istanze della società. Eppure il programma da affrontare con un governo di legislatura, che nasca per evitare l’immediato ricorso alle urne, è abbastanza chiaro.
Bisogna salvare 250.000 posti di lavoro a rischio per quasi 160 crisi aziendali ancora aperte. Occorre trovare le risorse per coprire maggiori interessi da pagare per oltre 5 miliardi di euro tra il 2019 e il 2020 a causa dello spread, che si aggiungono ai 23 da rinvenire per evitare con la prossima legge di bilancio l’aumento dell’Iva. Servono misure che mettano in sicurezza il quadro congiunturale, vista la frenata dell’economia dell’Eurozona e il piano monstre da 50 miliardi di euro che si sta valutando in Germania per far ripartire la locomotiva d’Europa. Altri interventi potrebbero servire qualora diventassero realtà i dazi minacciati da Donald Trump e la Brexit.
Per varare un esecutivo che affronti tutti questi temi, non basta però una figura molto autorevole come quella di Draghi, cui un po’ tutti si appellano. È troppo facile chiamare il più bravo di tutti.
Serve invece coraggio politico. Il coraggio di fare scelte decise, di varare una manovra che magari cancelli il reddito di cittadinanza e quota 100 intanto per bloccare l’aumento dell’Iva. Il coraggio di sbloccare la Tav per davvero e la miriade di opere pubbliche. Il coraggio di dare la caccia all’evasione fiscale che ogni anno ingigantisce il debito pubblico. Il coraggio di aumentare i fondi destinati all’istruzione.
Se manca tutto questo, come è mancato al governo del cambiamento, Pd e M5S si convincano a mettere nel cassetto ogni proposito di alleanza, perché le urne saranno la via migliore per una grande operazione di chiarezza. Anche in autunno, anche tra qualche mese. I mercati non temono l’azzardo, puniscono l’incapacità e l’instabilità politica. Si trovi un esecutivo che conduca il paese a nuove elezioni, non possiamo aver paura di questo, la carta Draghi è solo un alibi per coprire tante incapacità.
E così l’Italia si ritrova sul più bello senza guida e priva di una bussola politica, dopo l’intervento del premier Giuseppe Conte al Senato che ha sancito forse definitivamente la crisi del governo Lega-Cinquestelle (il condizionale è d’obbligo) in seguito allo strappo di inizio agosto del ministro dell’Interno Matteo Salvini e l’ingresso nel tunnel delle incertezze.
Il nostro paese si riconsegna al giudizio dei mercati e degli italiani, suscitando stupore e diffidenza ma a questo punto non solo degli analisti ma anche di chi spende al mare o in montagna qualche giorno di vacanza. Rispetto ad un altro agosto, quello del 2011, il paese non ha alternative credibili, come quella che si concretizzò con il gabinetto di Mario Monti, per fortuna non è l’epicentro di una crisi dei debiti sovrani e soprattutto gode ancora dell’ombrello della Bce, prossimo ad una nuova apertura, che all’epoca invece con la lettera di Draghi e Trichet fissò condizioni durissime all’esecutivo Berlusconi.
Ma visto che la storia si può ripetere ma sotto altre forme, occorre andare al di là delle liturgie istituzionali, dell’inevitabile spaesamento di chi presta 400 miliardi all’anno al Tesoro e si chiede chi guiderà la terza economia europea da qui a fine anno, probabilmente come tragitto le prossime elezioni. Oltre tutto questo c’è un dato di fondo che questa convulsione estiva fa emergere con nettezza: il nostro paese non merita il caos né una farsa politica. Ne pagherebbero le conseguenze lavoratori, risparmiatori e tutti coloro che dipendono dal ciclo economico e dalle scelte di chi dovrebbe guidarli.
Se si volesse per un momento lasciar stare la crisi di governo con tutto il suo armamentario liturgico, la manovra da varare, l’aumento dell’Iva da 23 miliardi da evitare ma che incombe, la legge sul taglio dei parlamentari che potrebbe di fatto bloccare le elezioni per sei mesi almeno ma che sembra ormai tramontata, il ruolo, cruciale, del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, bisogna chiedersi chi davvero paga l’implosione dell’ennesimo esecutivo e di tutto un sistema parlamentare, che va da Fratelli d’Italia al Pd senza eccezioni. La risposta è semplice, tutti gli italiani.
Dal 2013 qualcuno ha sempre perso alle urne e quel soggetto è stato proprio l’intero paese. Dalla non vittoria di Bersani ai governi di Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e infine Giuseppe Conte, nessuna maggioranza è riuscita davvero a concretizzare le riforme che servono a milioni di cittadini, nessun gabinetto ha affrontato con forza i quattro snodi che bloccano tutto. Un debito pubblico troppo alto che costa ogni anno almeno tre manovre; un fisco esoso con gli onesti e distratto con chi evade 120 miliardi di euro ogni 12 mesi; una burocrazia che assilla chi rispetta le regole ma ignora chi si disinteressa delle norme; e infine un sistema dell’istruzione che non riesce a frenare una tragica emorragia di cervelli che sta trasformando l’Italia in una splendida ma pur sempre casa di cura piena di pensionati e di precari trentenni. Nessun governo, passato, presente, si spera non futuro, ha preso di petto questi problemi e non sembra proprio che una maggioranza degna di questo nome dopo quella gialloverde, sia più in grado di farlo in questa legislatura. Il risultato, oggi come in passato, è stato e sarà sempre un inevitabile fallimento, in assenza di un minimo di quadro strategico e di una chiara, netta, comunione d’intenti.
Imprenditori e investitori, italiani ed esteri, hanno tirato il freno e per troppo tempo hanno osservato tra l’attonito e l’indifferente la continua bagarre tra i due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio e ora l’incredibile commedia che il Parlamento sta mettendo in scena per evitare di finire prima del previsto, o peggio nel dimenticatoio degli organi costituzionali fondamentali in una Repubblica come la nostra. A dispetto di quanto si pensi, l’Italia è invece pur sempre una corazzata, che non può permettersi di fermarsi né di andare sugli scogli, la settima economia del mondo, genera un surplus di esportazioni da 500 miliardi di euro, la sua cassaforte privata è tra le più ricche al mondo, con quasi 10.000 miliardi di euro di tesoro complessivo e depositi bancari crescenti a quota 400 miliardi, a dimostrazione che i risparmiatori preferiscono restare rintanati piuttosto che investire nel loro stesso paese. Ma tutto questo sembra non suscitare alcun interesse proprio in coloro, a destra come a sinistra, che dovrebbero candidarsi a guidarla.
Per mesi ci siamo illusi che i veri problemi dell’Italia fossero la riduzione delle disuguaglianze, come accogliere i migranti, i porti chiusi, la collocazione del nostro paese nel continente, le riforme necessarie per modificare in chiave sociale l’Unione Europea. E invece in palio c’era solo chi deve comandare a Palazzo Chigi. Come nella Prima Repubblica, che forse non è mai morta davvero. E lo scopriremo molto presto, magari con l’ennesima giravolta o con la melina che i partiti hanno messo in campo per chiudere le più vicine finestre elettorali d’autunno.